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Marzo 1917, San Pietroburgo.

Anastasija non vedeva Han da circa due settimane. Un servo le aveva detto che il pianista era malato, e che le lezioni sarebbero continuate solamente quando fosse stato meglio. Ma la ragazzina non era per niente stupida e quando notò che Minho era ogni giorno più triste, collegò entrambe le cose.

Avrebbe dovuto sentirsi felice per ciò, ma vedere il suo adorato Minho in quelle condizioni non faceva altro che farla stare male. Lo abbracciava spesso e lui ormai non ricambiava quasi mai. Gli sorrideva spesso, ma lui pareva aver dimenticato come si sorridesse. E questo la faceva sentire anche peggio di come stava Minho stesso.

Ma la situazione a San Pietroburgo era ancor più grave, perciò Anastasija non aveva molto tempo per pensare al suo soldato e al suo pianista.

Tra il popolo serpeggiava il malcontento, la crisi era aumentata in maniera drastica e i poveri contadini non arrivavano più a fine mese. Il comunismo si era ormai insidiato ovunque, e né lo zar, né il Governo Provvisorio potevano fare qualcosa.

Han, però, non ne sapeva nulla di tutto questo. L'unica cosa che aveva visto in quelle due settimane erano le sue lenzuola e la finestra della sua camera, da cui raramente filtrava un po' di luce. Si era chiuso in quella stanza e non era più uscito. Non piangeva più però, il povero Han. Si era ormai rassegnato all'idea che tutto ciò che aveva pensato su di Minho era sbagliato. Era riuscito a fargli del male anche con delle semplici parole e il senso di colpa gli stava lacerando l'anima, consumandola per sempre.

Durante quelle notti e quei giorni sotto le lenzuola, a compiangersi e a disperarsi, Han arrivò ad una sola soluzione. Era innamorato di Minho, lo amava. Altrimenti di certo non si sarebbe sentito così male da non uscire dal letto per giorni interi.

Quando era arrivato al Palazzo, di certo non avrebbe mai pensato che si sarebbe innamorato di qualcun altro. E poi era arrivato lui, col suo sorriso e i suoi occhi splendenti che avevano distrutto ogni briciolo di difesa che Han negli anni aveva costruito. Si stava anche lasciando andare con lui, tra carezze e coccole, ma poi aveva sbagliato a parlare e tutto era crollato come un castello di carta.

Gli mancava da morire Minho. Gli mancavano le sue mani, il suo profumo, la sua risata bellissima che gli entrava sempre dritto nel cuore, la più bella sinfonia di sempre. Ma ormai era tutto andato e Han aveva provato in tutti i modi a dimenticarlo, con scarsi risultati ovviamente anche perché vivevano comunque sotto lo stesso enorme e magnifico tetto.

Una mattina a inizio Marzo, la solita serva pagata profumatamente da Han affinché gli portasse qualcosa da mangiare ogni giorno durante la sua prigionia in camera, entrò in stanza con un vassoio pieno di pane, bevande e altri viveri, quanto bastava per sopravvivere tutta la giornata. "Grazie Felix." aveva detto al servo, provando a sorridere. Ma prima che Felix chiudesse la porta alle sue spalle, una grande mano la bloccò e Han l'avrebbe riconosciuta tra mille. Il suo cuore si bloccò e le lacrime già premevano per uscire.

Minho si infilò subito dentro la stanza, lasciando la cameriera un po' scioccata, che però chiuse ugualmente la porta.

"Che cosa vuoi Minho?" chiese Han, sedendosi sul letto e evitando il suo sguardo. Non aveva il coraggio di guardarlo in faccia, di vedere in che condizioni fosse. Non aveva il coraggio di riguardare quegli occhi che tanto amava e quelle labbra che tanto desiderava.

"Parlarti." aveva risposto solamente, avvicinandosi al pianista con passi lenti e facendo scricchiolare i suoi stivali neri. "Han.. hai una pessima cera."

Su questo certo non poteva dargli torno. Era dimagrito molto in quelle due settimane, aveva due occhiaie marcatissime e il volto scarno. La barbetta ben curata era diventata più lunga e incolta, le guance che di solito si imporporavano erano due fossi ormai.

"Io non voglio parlarti." aveva detto duro Han, cercando di apparire più sincero possibile. Minho aprì la bocca in segno di stupore, mentre i suoi occhi diventavano leggermente lucidi. Si piegò sulle ginocchia, accanto a Han seduto sul letto, prendendogli una mano. "Ti prego." mormorò ancora il soldato, in una preghiera che il pianista non avrebbe ascoltato.

"Vattene." continuò Han, spingendo via la sua mano e alzandosi dal letto. "Non voglio più parlarti Minho. Vorrei anche non vederti più, ma in questo Palazzo mi è impossibile quindi per favore, ti sto chiedendo di andartene."

"Han.." disse piano il soldato, cercando lo sguardo dell'altro. Ma Han, di fronte alla finestra a guardare chissà che cosa, non si azzardava neanche a voltarsi.

Così il soldato fu costretto a ritirarsi per quella volta, ma di certo non si sarebbe arreso così facilmente.

Quando Minho se ne fu andato e la porta sbatté in un rumore sordo, Han pianse tantissimo. Era stato costretto a mandarlo via, anche se in realtà tutto ciò che voleva fare era abbracciarlo e baciarlo come non aveva mai fatto. Ma gli aveva già fatto del male una volta e non voleva fargliene ancora. Lo aveva cacciato dalla sua stanza, ma di certo ancora non era il tempo di cacciarlo dal suo cuore.

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