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25 Ottobre 1917, San Pietroburgo. Ore 19:00.

Due ore dopo, Han il pianista acclamato da moltissime persone in Russia, fu convocato alla presenza della zarina Aleksandra Fëdorovna Romanova, che pur di non pensare alla guerra, aveva deciso di preoccuparsi delle cose che riguardavano il suo adorato Palazzo, lasciato nelle sue mani dal marito Nikolaij II partito per la guerra.

"Vostra Maestà." si inchinò il giovane, sorpreso per quella chiamata improvvisa e curioso di sapere che cosa volesse da lui la donna più potente del mondo.

Quello che vide fu come un dejà vu: la zarina era seduta comodamente sul divanetto, sorseggiando tè nero d'alta qualità, esattamente come la prima volta che si erano incontrati.

La differenza stava nel fatto che gli occhi di Aleksandra erano di un azzurro spento, quasi assente, e persino la sua maschera da donna austera non riusciva a coprire quella perdita improvvisa di colore. Han si morse un labbro: sapeva che anche lei in fondo, aveva un cuore d'oro e che la guerra la stava distruggendo, come stava distruggendo tutta la popolazione russa.

"Hai fatto un ottimo lavoro in questi mesi." aveva iniziato la donna, senza neanche guardarlo negli occhi. "Hai persino insegnato qualcosa a quelle teste dure delle mie bambine."

Han si sforzò di fare un sorriso, mentre sussurrava un debole "Grazie.".

"Sai, avresti potuto anche continuare a lavorare qui, magari insegnando il pianoforte alle mie figlie. Ma poi mi è giunta voce di una certa relazione che sai, caro Han, non ci fa fare di certo una bella figura di fronte agli altri."

Il cuore di Han mancò di un battito. O forse di due, tre.

Era certo che stesse parlando di lui e Minho, li avevano scoperti, se lo sentiva. Il suo labbro tremò, gli occhi si riempirono di lacrime ma da qualche parte dentro sé trovò la forza per chiedere "In che senso, vostra Maestà?"

"Devi andartene, Han, entro stasera. Non possiamo cacciare via il soldato perché in un momento come questo una guardia in più non può farci che comodo, ma un pianista al momento non è più richiesto."

Han inghiottì, incapace di rispondere. La sua mente era annebbiata, l'immagine della zarina era ormai sfocata. Immobile e cercando di non cedere al dolore davanti Aleksandra, si inchinò come aveva fatto appena era entrato e disse: "Sono stato onorato di lavorare al vostro servizio. E' stata l'occasione più grande della mia vita. E non mi pento di nulla."

La zarina rimase sorpresa per quella grande forza che aveva mostrato il pianista. Aveva colto la leggera frecciatina dell'ultima frase, ma non gli diede peso più di tanto, poiché aveva capito che Han era davvero un brav'uomo.

"Dasvidania, vostra Maestà. Le auguro il meglio." salutò Han in un veloce addio, prima di uscire dalla sua stanza in modo diplomatico e lasciarsi dilaniare dal dolore definitivamente.

Si accasciò dietro la porta della zarina, non pensando che se fosse uscita l'avrebbe visto in quello stato. Chiuse gli occhi, cercando di respirare regolarmente, ma gli mancava l'aria, la stretta al cuore era troppo forte e si sentiva morire. Appoggiò le mani a terra per trovare la forza di alzarsi, ma ci vollero diversi tentativi prima che ci riuscisse. Mentre camminava dovette aiutarsi a stare in piedi sostenendosi con una mano sul muro. Non sapeva dove stava andando, non gli importava. Avrebbe tanto voluto cercare Minho e dirgli la verità, ma con che faccia poteva dire all'uomo che amava che erano costretti a separarsi? Alcune lacrime sfuggirono al controllo, rigando le guance portatrici di tanti ricordi. Le asciugò in fretta, sperando che nessuno che passava accanto a lui le avesse notate.

I suoi piedi lo portarono nella loro camera, mentre la sua testa era in un'altra dimensione: stava rivivendo ogni singolo momento passato col riccio, dal primo incontro, dalla prima colazione, al primo bacio, al primo pianto insieme.

Gli aveva regalato tutto ciò che aveva. L'anima, il corpo, la mente, era stato tutto donato a quel ragazzo che in realtà si era già preso tutto senza neanche chiederlo.

Lo amava, ormai ne era più sicuro. Lo amava con ogni singola fibra del corpo, ogni singola ossa e anche se ce n'erano milioni, anche con ogni singola cellula. Si sedette sullo sgabello davanti a quel pianoforte che con tanta gentilezza Minho aveva fatto riparare per lui. Si ricordò che non lo aveva mai ringraziato abbastanza per quel gesto, e che lo avrebbe fatto prima di dirgli addio.

Non riusciva neanche a pensarla quella parola. Non poteva neanche concepire di separarsi da lui, non dopo quell'anno meraviglioso che avevano passato insieme, seppur con qualche mese di stallo.

Senza di Minho, non gli sarebbe rimasto più nulla. O forse sì, una sola cosa: la musica. Per questo, iniziò a premere i tasti del pianoforte davanti a sé, rifugiandosi nell'unico mondo oltre le braccia di Minho in cui si sentiva protetto. Tasti neri e tasti bianchi, tasti bianchi e tasti neri e poi insieme e poi separati, in una danza guidata da quelle dita affusolate che in quel momento desideravano essere incastrati tra i ricci del soldato, o accoccolate nelle sue guance e nelle sue fossette.

Un sussulto ad una nota alta: Han iniziò a piangere seriamente, versando tutta l'anima in quei tasti che potevano capire il dolore che stava provando.

Non stava suonando una musica conosciuta, né di Strauss, né di Cajkovski. Era solo un'accozzaglia di note che insieme suonavano dolorosamente bene. Era la musica di Minho e Han, dei loro ricordi, delle loro speranze, delle loro sofferenze.

Quella sera, Han non fece altro che scrivere e suonare.

Scrivere su pentagrammi che erano diventati pentadrammi, scrivere sinfonie che erano diventate sinfobie.

Il cuore di Han non batteva più.

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