Capitolo 10

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...Successe il putiferio.

Il figlio di una delle famiglie più importanti del paese e il figlio del presidente che si azzuffano come scolaretti dell'elementari.

Furono mandati immediatamente in presidenza dove, sempre per l'influenza dei genitori, furono solo ammoniti.

Entrambi erano ridotti abbastanza male e per questo motivo furono spediti subito dopo in infermeria.

Tutti gli altri invece continuarono gli le lezioni.

Le ragazze continuavano a spettegolare e a guardare dalla mia parte.

Era così fastidioso.

Mari continuava a chiedere spiegazioni e io ero troppo stordita per risponderle.

In meno di due ore la scuola si divise in due parti, una a sostegno di George e l'altra di James.

Mari stava dalla parte di George, io di nessuno.

Avevano sbagliato tutti e due e James era stato troppo impulsivo.

Io e James non avemmo occasione di parlarci e così fu lo stesso con George.

Pensai che fosse meglio così, tuttavia, sentivo un qualcosa dentro di me, come un peso, che si tramutava in angoscia.

In momenti come quelli, aprivo il mio cassetto e prendevo il libro con la margherita.

La margherita che mi aveva regalato James.

Restavo ad osservarla finché non mi sentivo meglio.

Di notte spesso non riuscivo a dormire e addirittura, scoppiavo a piangere.

Non sapevo perché lo facessi, ma sentivo solo il bisogno di piangere.

Nei corridoi e in classe, capitava che incrociassi il mio sguardo con quello di James o quello di George, il quale mi aveva confessato i suoi sentimenti quel giorno in infermeria.

A mensa sedevo di nuovo sola, a parte per la presenza di Marianne in certe occasioni.

Lei in realtà non faceva anche il pomeriggio perché aveva problemi di salute.

In quel periodo sopratutto, continuava a farsi controlli e analisi.

Così per la maggior parte del tempo ero completamente sola, come prima.

Camminare nei corridoi a testa bassa, e pause pranzo in biblioteca.

Poco prima delle vacanze di natale, a scuola ci sarebbe stato un ballo.

Ero più malinconica del solito, visto che non avevo un accompagnatore e nemmeno un vestito adatto per andarci.

Così, invece di prepararmi per quest'imminente ballo, mi concentrai sui miei studi.

Mi ero ripromessa di battere George ai prossimi esami.

Ero sicura che ce l'avrei fatta.

Marianne, odiava questi tipi di eventi, e l'idea di andarci non la sfiorava nemmeno.

La sera del ballo, io e Marianne ci eravamo date appuntamento a casa mia per vederci un film e mangiare fino a scoppiare.

Verso mezzanotte Mari si era già addormentata.

La lasciai sul divano e le misi una coperta.

Andai in cucina a prendere altro pop corn per il film quando qualcuno suonò alla porta.

Mi chiesi chi potesse essere a quell'ora.

James.

Era James.

Rimasi in silenzio alla sua vista, anche lui non disse niente.

Rimanemmo solo a fissarci, per quei pochi minuti che furono, quel peso che sentivo spesso nel petto, ritornò ad angosciarmi dentro.

"Che ci fai qui?" Chiesi, sempre più confusa.

"Puoi uscire un attimo?" Domandò.

"È mezzanotte!"

"Per favore."

"Va bene."

Camminammo per un po, in quella strada illuminata dalla fioca luce dei lampioni.

"È da un pezzo che..." Dissi, interrompendo il silenzio che ci avvolgeva.

"Lo so," Rispose lui. "mi dispiace Abby.."

"Non importa." Dissi, voltandomi verso di lui.

Sorrisi.

Aveva un'aria strana quella notte.

"Allora, volevi dirmi qualcos..." Iniziai.

"Andrò a Londra." Mormorò così silenziosamente, che a stento lo sentii.

"Ah, mi piacerebbe andarci, a Londra.

È una delle mie città preferite.

Beh, buon viaggio allora, quando ritornerai?"

"Non ritornerò più." Disse. "Mio padre ha deciso di farmi studiare lì."

Mi fermai di colpo.

Non riuscivo a crederci, non volevo crederci.

Scosso la testa.

Risi. "È un altro dei tuoi scherzi, vero? Non è affatto divertente James."

Rimase serio come non mai.

"Abby..." Disse.

Ci fu una specie di crack dentro di me, qualcosa come uno specchio che cade a terra e si frantuma in mille pezzi.

Quei mille pezzi che, se non ci stai attento, ti potrebbero far male.

Ma io il dolore lo sentivo già, anche se ci ero stata attenta, anche se mi ero tenuta lontana da quei pezzi di vetro.

Non mi accorsi nemmeno che stavo piangendo.

Le lacrime che scendevano dai miei occhi erano freddi come il ghiaccio, freddi come quella notte, freddi come quell'inverno in corso.

Mi abbracciò, James.

Mi strinse a sé, in quelle sue gigantesche braccia, senza dire nulla.

Rimanemmo lì, in mezzo al marciapiede, in silenzio.

Qualche minuto dopo mi staccai da lui, mi asciugai il volto e sorrisi.

"Scusami, non so cosa mi sia preso." Balbettai, continuando a strofinarmi gli occhi. "Scusa ma è tardi, penso che sia meglio se ritorni a casa.

Mia madre sarà preoccupatissima."

Cominciai a correre, il più veloce che potevo.

Volevo correre via da tutto ciò che mi aveva detto.

Volevo correre via da lui, perché sapevo che se fossi rimasta avrei continuato a piangere, e non volevo che lui mi vedesse in quel stato.

Corsi fino a casa, con le mani ghiacciate e gli occhi ancora pieni di lacrime.

Andai in soggiorno, e caddi a terra sul pavimento.

"Che succede?" Chiese Mari nel buio della stanza, svegliata dai miei singhiozzi.

"Parte." Dissi.

"Chi parte?"

"James."

"James?"

"Non ritornerà più."

Fu l'ultima cosa che dissi.

Marianne non chiese più nulla, semplicemente, mi abbracciò.

Piansi ancora più forte.

Rimanemmo in quel modo, finché non ci addormentammo dalla stanchezza.

Tempeste e UraganiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora