15. Dobbiamo sbarazzarci di lei

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Adriel

Questa mattina, all'interno del pulmino che ci accompagna al Campus, aleggia un pesante silenzio. Tutti sono consapevoli del fatto che devo parlargli di qualcosa d'importante e la tensione per l'imminente incontro impregna l'aria dell'abitacolo. Sono certo che quasi si possa percepirne il gusto acre.

La mia mente vaga a ritroso e inevitabilmente rievoco l'ennesimo doloroso ricordo di Layla, perché noi stiamo per scappare, per andarcene da questo posto orribile, mentre lei non c'è l'ha fatta.
Cinque anni fa siamo stati degli sciocchi a illuderci che il supervisore non ci avrebbe scoperto, ma questa volta sarà diverso.

Ripenso al momento in cui lui ha scoperto che io e Layla ci siamo connessi, una giorno prima dello scoppio della rivolta che ora chiamiamo Giorno Zero.
Ci ha fatto rinchiudere nella stanza adibita per i controlli medici. Riuscivo a sentire l'apprensione di Layla, mentre sul letto accanto al mio veniva sottoposta a degli esami.
Entrambi siamo stati legati ai lettini per i polsi e per le mani. Sul petto e sulle tempie ci sono stati applicati degli elettrodi per rilevare le onde cerebrali e monitorare i parametri vitali.
Anche se avevo già sentito dire dagli anziani del mio popolo di come i battiti cardiaci e le onde si sintonizzassero, dopo la comparsa del nodo, mi ha sconvolto poterlo constatare con i miei occhi, attraverso i monitor dei macchinari.
Invece il supervisore e il dottor Martins, il medico che in quel momento eseguiva i test su di noi, non sembravano affatto sorpresi.

Quanti di noi sono già stati sottoposti a quest'indagine? Quanti, come noi, hanno provato la nostra stessa preoccupazione durante questi esami?

Dopo i primi controlli di routine, la situazione era degenerata. Il supervisore ha preso in mano un taser, uno di quegli aggeggi umani che rilasciano una scarica di corrente tale da storditi, come abbiamo scoperto durante lo sbarco sulla Terra.

Layla ha inclinato il capo verso di me e ha fissato i suoi occhi, lucidi per la paura, nei miei.
Durante l'attesa di sapere su chi di noi lui avrebbe usato quella cosa siamo rimasti in silenzio, con il panico a opprimerci il petto e a costringere i nostri cuori a pulsare il sangue più veloce.

Il supervisore si è avvicinato a Layla e le ha detto: «Questo farà male, ma è un male necessario ai fini della scienza.»

Ha calato il taser su di lei, facendola contorce per il dolore.
I suoi muscoli si contraevano e il suo corpo sussultava per gli spasmi, quasi fosse una molla.
Per tutta la durata di quella tortura Layla non ha mai staccato gli occhi dai miei.

Ho cercato di liberarmi per mettere fine alla sofferenza che le deformava i lineamenti del viso, per fermare quella tortura troppo forte da sopportarla in silenzio. Ho imprecato, ho strattonato le cinghie fino a scorticarmi la pelle e, alla fine, l'ho implorato di smettere, ma lui non mi ha dato retta.
Le fitte di dolore che sentivo erano solo l'eco di quello che provava, un dolore insopportabile, senza fine, che mi penetrava a fondo portando al limite la sensibilità dei nervi.
È stata in quell'occasione, prima che perdesse i sensi, che ho sentito per la prima volta la sua voce rimbombare nella mia testa.

«Finirà presto, smettila di cercare di liberarti» mi ha implorato con il pensiero e io mi sono immobilizzato per lo shock e ho smesso di dimenarmi.

«Troverò un modo per andarcene da qui, te lo prometto» le ho risposto mentalmente, senza mai sapere se mi avesse sentito, perché subito dopo ha perso i sensi, mettendo fine a quella tortura.

Non sono riuscito a mantenere la promessa che le ho fatto. Non sono riuscito a salvarla, ma, dal Giorno Zero, non ho mai smesso di cercare di escogitare un piano per poter scappare da quel posto orribile.
Non ho salvato la mia compagna, ma dovevo almeno tentare di aiutare tutti gli altri. Lei lo avrebbe fatto, non mi avrebbe mai perdonato se mi fossi arreso senza lottare.

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