Epilogo

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Alyssa

Apro gli occhi e subito il mio sguardo è attirato dallo sfarfallio dell'innaturale luce al neon, posta al di là delle sbarre d'acciaio.
Stringo la presa sulle ginocchia, cerco di posizionare meglio la schiena contro la parete gialla, rivestita da uno strato di lisci cristalli di zolfo e tendo l'orecchio, in ascolto. Riesco a percepire l'ormai familiare ticchettio di una goccia d'acqua che s'infrange al suolo, sicuramente fuoriuscita da qualche tubatura che perde. È l'unica cosa con cui sono riuscita a scandire le mie giornate da quando sono rinchiusa qui dentro.
Ho contato centosessanta duemila gocce, all'incirca, quindi, a occhio e croce, azzardo a dire che sono già passati due giorni. O forse tre.

All'improvviso il rumore di passi pesanti, che rimbombano nel corridoio umido, mi fanno sobbalzare. Comincio a dondolare avanti e indietro per il nervosismo. Abbasso lo sguardo su una piastrella scheggiata del pavimento. Questa è la parte che più odio del mio soggiorno forzato: non sapere cosa mi aspetta.

I passi si arrestano di fronte a me. Ricomincio a contare nella mente e continuo a cullarmi, con le mani ancorate alle ginocchia.

162.001
162.002
162.003

Un rumore metallico, di qualcosa che viene sbattuto a terra, interrompe la mia follia. Stacco gli occhi dal pavimento lurido e li poso sul piatto che giace al suolo, di fronte alla punta degli anfibi neri del soldato. Mi hanno portato il pasto, se sia il pranzo o la cena non lo so dire.
Fisso la sbobba che vi è stata deposta sopra e, non appena il profumo di quella roba disgustosa invade le mie narici, il mio stomaco si contrae dolorosamente.

Sono due o tre giorni che non tocco cibo, non mi fido, per quello che ne so potrebbero alterarlo. Il soldato allunga con la punta del piede il piatto verso di me e quello si rovescia al suolo, insudiciando ancor di più il grigio pavimento.
Tanto meglio, così sono ancora meno tentata di cedere ai morsi della fame.

L'uomo si affretta a deporre una bottiglietta d'acqua sigillata e, con uno scatto in avanti, mi precipito ad afferrarla, per placare la gola riarsa dalla sete. Con un rapido colpo di reni ritorno al mio posto, con la schiena incollata alla fredda parete.

Sono due o tre giorni che ho il dubbio che droghino anche l'acqua, ma il pensiero di morire di sete mi obbliga a fregarmene.
Mi concentro sul fatto che so che basta una sola settimana per perire a causa della sete e più di venti giorni per spegnersi per la denutrizione, così scolo con avidità tutto il liquido trasparente senza più pensarci e resto in attesa di sentire di nuovo lo stridio della gomma delle scarpe che sfrega sul pavimento. Inaspettatamente, sento dei rumori nuovi: un bip metallico e poi una serratura che scatta. 

Terrorizzata, raccolgo il coraggio per cercare gli occhi dell'uomo. «Adam, ti prego, non sei obbligato a farlo.»

Ma lui m'ignora; le sue iridi nocciola mi scrutano impassibili, senza mostrare il minimo cenno di pietà, mentre spalanca le sbarre della mia cella, facendomi cenno con la mano di seguirlo.

Mi blocco, indecisa se andare incontro alla mia morte con coraggio, o restarmene come una vigliacca rintanata tra queste quattro anguste pareti, costringendolo a trascinarmi fuori con la forza.

Alla fine penso che, se proprio devo spegnermi, è il caso di farlo con dignità, senza dare la soddisfazione di far sapere al supervisore quanto mi ha provato questo isolamento forzato.
Mi alzo in piedi e un capogiro, dovuto al digiuno, rischia di farmi svenire. Nel momento in cui la vista torna normale, procedo un passo alla volta fino al limitare della cella, ancora incerta se varcare o meno questo confine d'acciaio.

Alpha - the escapeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora