9. I Forgive you

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L'aria fredda del mattino spirava dalla finestra e intorpidiva ogni cosa al suo passaggio lasciando tracce di brividi e scostamenti infastiditi che cercavano di schivare il gelo imperterrito che picchiava contro la sua pelle.
Pizzicava ogni singola parte delle sue braccia, lasciate scoperte dal bianco tessuto a causa del soffocante caldo notturno e forse ancora estivo che si spandeva e occupava ogni angolo di quella stanza. Si rigirava nel letto, tra le lenzuola, cercando e scovando degli angoli caldi o tiepidi. Tirava le coperte tentando di coprire i punti feriti dal freddo e pruriti da fastidiosi pizzicori. Nascondeva le braccia sotto ai cuscini prima di tirarsi le coperte al petto stringendole nei pugni, corrucciando lo sguardo. Poi, tutto d'un tratto, un violento bruciore lo colpì alla nuca, alle tempie e tutta la testa per poi spostarsi e arrivare ai reni e tra le gambe. Continuò a muoversi nel letto sentendo fitte su fitte in tutto il corpo. Stufo di tutto quel travaglio, portò un palmo a tastare il fondo-schiena e poi l'interno coscia, ma appena la mano sfiorò le gambe proprio in quel punto ebbe un sussulto. Sbarrò gli occhi e si alzò di colpo spostando le coperte. Si alzò la maglietta ed abbassò i pantaloni. Non appena gli occhi videro, una potente ondata di ricordi lo travolse, così che ogni momento della notte prima tornasse a galla. Sul suo corpo si era cicatrizzato tutto ciò che avrebbe voluto dimenticare: le gambe, solitamente affusolate e candide, erano coperte di lividi e graffi così come il petto e i fianchi; i polsi erano rigati e screpolati, lividi e doloranti. Le sue natiche erano incrostate di sangue. Il respiro gli venne meno e la sua pelle sbiancò, il cuore prese a pompare forsennatamente. Tutto tornò a galla lasciando infradiciare gli occhi di Dylan che, come bucati, lasciarono cadere lacrime su lacrime che si succedevano senza un secondo di tregua. Aveva provato a trattenere un urlo di frustrazione ma fu inutile perchè dopo qualche attimo si prese la testa tra le mani stringendo i capelli arruffati tra le dita, si incurvò verso il basso e lasciò che dalla sua gola uscisse un grido soffocato e roco. Il lamento continuò a farsi largo tra i singhiozzi finchè la gola non cominciò a bruciare come braci ancora ardenti di un fuoco non del tutto estinto. Allora lasciò i capelli e portò le mani sugli occhi per asciugarli. Un ultimo singhiozzo, lungo e conciato, poi si mise a guardare dritto davanti a sé con gli occhi in fiamme. Nonostante i frammenti fossero pochi e confusi, c'erano comunque... e non si potevano cancellare. Dopo essersi sistemato i vestiti con le mani ancora tremanti un rumore di passi veloci e pesanti lo fece voltare di scatto verso la porta della camera che qualche secondo dopo si spalancò lasciando che la figura del fratello si concretizzasse lì sulla soglia, sotto al suo sguardo. Gli occhi rossi, le profonde occhiaie livide e le righe profonde lasciate dalle lacrime sulle sue guance lo facevano assomigliare ad un condannato a morte già sul patibolo, già con il collo sotto la lama del boia. Le labbra erano socchiuse e tremavano. Dopo secondi di silenzio: <<Dylan... >> fu appena udibile quel mormorio tutto acquoso appena uscito dalla bocca di Justin. Però l'unica cosa che l'altro riuscì a fare fu indietreggiare di scatto, sbattendo sulla testiera del letto.<<Stai lontano da me.... >> disse terrorizzato sentendo una fastidiosa sensazione allo stomaco. Altre lacrime e altro bruciore, il corpo ancora più in subbuglio preso alla sprovvista da altri tremendi tremori. Poi ripresero anche i rumorosi singhiozzi, privi di respiro o secondi d'intervallo, gli impedivano di respirare. Justin chiuse la porta delicatamente ma rimase lì fermo dov'era, immobile come una statua tremenda e bellissima.
Quando Dylan si accorse che anche il fratello stava piangendo, che le lacrime scendevano a fiumi sul suo viso pallido, smise di stringersi le braccia e distese leggermente le gambe, prima piegate al petto. Calò il silenzio. Si sentiva solo il rumore cadenzato delle lacrime di Justin che cadevano per terra come pioggia sull'asfalto. Poi di colpo un rantolo seguito da un singhiozzo sfuggì al suo controllo. <<Scusami... >> mormorò mentre le lacrime seguivano il contorno delle sue mandibole. Ma sapeva che non sarebbe stato abbastanza nemmeno se avesse ripetuto quella parola mille, duemila, infinite volte.
<<No! Vattene!>>Dylan si strinse i capelli, voleva strapparli, voleva staccarsi occhi e orecchie e sparire per sempre.
<<Ti prego->>Disse Justin. Ma lo diceva, non lo pensava: non si sarebbe perdonato da solo e non si aspettava davvero di essere perdonato da lui. Però erano le uniche parole che gli venivano in mente.
<<NO!>>
<<Dylan... ti prego>> non era diverso da quello di una supplica il modo in cui gli stava parlando. Si sarebbe potuto inginocchiare da un momento all'altro senza sorprendere nessuno.
<<Non volevo >> singhiozzò.
Dylan si inginocchiò sul letto e cominciò a urlare e a sbattere la testa contro il materasso, prendendo le lenzuola e buttandole per terra. <<SEI UN PAZZO! PAZZO! PAZZO!>> pianse più forte.
Aveva ragione, pensava Justin. Era pazzo. Era malato. Non lo avrebbe mai fatto se fosse stato in sé ma per quanto se lo ripetesse sapeva che non era una scusa. Ormai era successo e un modo per tornare indietro, per cancellare tutto, non lo conosceva nessuno. <<STAI LONTANO DA ME!>> lo fissò negli occhi. Justin concordava con tutto ciò che gli stava dicendo.
<<Mi dispiace... >> sussurrò. <<Ti scongiuro.>> Subito dopo si inginocchiò ai piedi del letto e lo guardò piangendo.
Dylan rimase un attimo interdetto, fermo, pallido come un morto.  Justin avrebbe voluto abbracciarlo, spiegargli tutto, tutto quanto, ma la sola idea di toccarlo ancora gli fece venire la nausea. Neanche il tempo di pensarlo che si era già piegato in due e aveva rimesso sul pavimento. Gridò e pianse nascondendo il viso tra le mani. Si vergognava, e la vergogna che provava per se stesso in quel momento era tale da fargli desiderare di finire davvero sotto la lama di quel boia. Si vergognava di avergli detto di scusarlo, di perdonarlo. Sentiva Dylan respirare in modo conciato.
Nessuno dei due parlò per molti minuti, piangevano soltanto.
"Non ero io... scusa... scusa... scusa...!" Avrebbe voluto dirgli. Ma chi gli avrebbe creduto? Non avrebbe neanche creduto a sé stesso.
Quando, con questi pensieri, il suo pianto si fece più forte, da sopra il letto sentì la voce dell'altro straziata.
<<Io ti odio.>> Fu un sussurro ma sufficiente per strappare tutte le viscere ancora intatte di Justin.
<<Va bene.>> Riuscì a dire solo quello prima di vomitare ancora. << Odiami, davvero.>>
Se ci fossero altre cose che volessero dirsi questo era ovvio, ma che ci riuscissero davvero a dirle era un'altra questione. Dylan si stese in silenzio sul letto, Justin posò la testa sul materasso rimanendo in ginocchio. Stettero così per molto tempo, ore di acuto silenzio nelle quali parlare sarebbe stato inutile e invece i loro muti discorsi stavano spiegando molto più di quanto potessero immaginare.
Piangendo, dandogli le spalle per non guardarlo a causa del forte sentimento di vergogna ancora vivo un lui, Justin gli spiegò cosa fosse successo. Per Dylan fu difficile capirlo perché i singhiozzi gli impedivano di formulare una frase totalmente comprensibile.
Lo portò in camera sua e gli fece vedere i sacchetti di quell'atroce polvere bianca che lo aveva portato alla pazzia. Mentre entrambi fissavano quei sacchetti Justin  ancora una volta vomitò per terra e si strinse i capelli così forte da staccarne un po'.
Con uno sforzo sovrumano di cui non si riteneva capace, Dylan lo abbracciò. Lo strinse. Fu una stretta disperata da cui avrebbe voluto staccarsi ma di cui sentiva di avere bisogno.
Justin avrebbe voluto scappare via, dirgli di allontanarsi, dirgli di non perdonarlo perché ciò che aveva fatto era imperdonabile. Ma non aveva la forza per farlo.
Provò a parlare ma il primo tentativo non gli riuscì, le parole gli morirono in gola e le lacrime gli caddero dagli occhi come pioggia.
Ci riprovò. <<Non vedevo più niente>>
Dylan strinse la presa. Singhiozzò.
<<Non capivo più niente>> Justin mangiava le sue lacrime come fossero l'unica cosa che gli permettesse di continuare a parlare, tremava e sussurrava come se non avesse la certezza di voler continuare davvero.
<<Non sapevo chi eri. Non sapevo chi ero>> lì avrebbe voluto seppellirsi e non farsi più vedere da nessuno, aveva paura che nessuno avrebbe creduto alle sue parole. Era facile non credere al carnefice, era facile pensare che il peccatore mentisse. Facile, facile, facile. Niente era facile, tranne credere le cose facili.
Ma Dylan non voleva credere alle cose facili.
Quando vide un ragazzo inginocchiarsi  e vomitare ai suoi piedi parole e lacrime e chiedere perdono come se fosse l'unica cosa che lo tenesse ancora aggrappato alla vita, si piegò alla pietà e  per quanto il perdono non fosse facile da trovare e dare, ci provò.
Dentro di sé sapeva che suo fratello non mentiva e per quanto il suo corpo ripugnasse essere a contatto con quello dell'altro, il suo cuore non si sentiva allo stesso modo. Dentro di lui si scontravano due sentimenti contrastanti di cui uno era ragionevole, l'altro emozionale. Dylan scelse Entrambi e mentre costringeva se stesso ad abbracciarlo una parte di sé cercava di staccarsi da lui. Mentre sapeva che la sua anima avrebbe voluto per sempre stare a quel modo, il suo corpo tremava di terrore a quel contatto.

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