꧁Capitolo 2 - Parte prima꧂

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Domenico e Giovanni erano a pochi metri di distanza, intenti a minimizzare quanto avevano fatto poco prima. Matteo sbuffò. Forse aveva esagerato, ma ormai il danno era fatto.

Rallentò il passo inconsapevolmente, le mani in tasca. I suoi occhi verdi erano fissi a terra, persi nel vuoto, la mente affacciata sui ricordi del pomeriggio. Nel ritorno a casa si era illuso che quel giorno sarebbe stato uguale ai precedenti e già si immaginava la continuazione; una madre troppo impegnata a trascorrere passivamente la propria esistenza non lo avrebbe degnato di uno sguardo, i fratelli gli avrebbero sicuramente rinfacciato la sua inutilità in quella famiglia e lui se ne sarebbe rimasto rinchiuso in camera senza portare avanti o iniziare nulla di nuovo. Non aveva però previsto il possibile arrivo del padre.

«Hey, Matte', perché sei rimasto così indietro?» I due si erano fermati.

A vederli da lontano sembravano quasi fratelli. Entrambi castani, gli occhi nocciola, stessa altezza. Ciò che li distingueva erano gli accenti; Domenico, di origini siciliane, aveva ereditato l'accento marcato dei genitori, mentre Giovanni tendeva a conversare usando quello bergamasco, più per farsi notare che per portare avanti il dialetto nella loro generazione.

«Questo freddo mi rallenta.» Si lamentò lui.

«Non fa così freddo, oggi.» Ribatté Domenico.

«Non per te. Forza, muoviamoci che ci perdiamo la partita.» Con passo spedito si portò in testa al gruppo, ignorando le loro lamentele.

Lorenzo era il compagno di Alessia, un padre assente se non per questioni economiche. Intravisto davanti al cencellino del condominio, Matteo aveva intuito immediatamente il motivo della sua visita non prevista: il denaro, necessario per procurarsi quelle sostanze che, giorno dopo giorno, lo distruggevano in una spirale di emozioni incontrollate e deliri.

Le difficoltà lavorative di Alessia si erano recentemente fatte sentire. Nonostante la criticità, nessun membro della famiglia era interessato a fare la propria parte ad eccezione di Matteo che, cinque notti a settimana, svolgeva le pulizie in un piccolo ristorante del centro. Rifiutandosi di adempiere alla richiesta del compagno, Lorenzo si era sfogato sulla madre in un impeto di pura rabbia, lasciandole gli ennesimi lividi sulla pelle.

Matteo non era riuscito a contenersi. L'odio represso, accompagnato dalla paura, lo spinsero ad intervenire in pochi secondi, frantumando quella falsa indifferenza entro cui si era rifugiato. Quanto era diretto alla madre venne a lui rivolto. Il calcio dritto alla bocca dello stomaco fu il più doloroso, ma nulla che non potesse sopportare. Alla fine, dopo essersi calmato, Lorenzo se n'era andato come se nulla fosse accaduto.

Gli venne da sorridere, sentendosi improvvisamente fiero di sé. Fino a quel giorno, il suo coraggio e il desiderio di tener testa a quell'uomo, se tale poteva definirlo, erano stati inibiti dal terrore. Il senso di colpa e di fallimento lo avevano spinto a trovare una via di fuga su qualcun altro; William gli ricordava costantemente i problemi che lo affliggevano: egli aveva una vita così tranquilla e normale, pacifica e spensierata, possedeva qualità e cose che lui non aveva e questo lo faceva sentire piccolo, incapace, impotente. Ecco perché era diventata la sua vittima. A differenza sua, quel ragazzo possedeva quasi tutto.

Fece scrocchiare la spalla sinistra, ancora dolorante a causa dello spintone ricevuto da Lorenzo circa un'ora prima. Nemmeno riusciva a guardarsi allo specchio. Più si osservava, più poteva vedere in lui gli occhi verdi del padre e i capelli ricci e neri ereditati dallo stesso. Strinse i pugni, non poteva continuare a pensarci. Si voltò per osservare i due amici intenti a chiacchierare. Le loro vite erano quasi perfette, uno con i genitori proprietari di un'impresa, l'altro con una famiglia normale. A volte li invidiava, ma era anche contento per loro.

Subito dopo aver svoltato a un incrocio, entrando in una via secondaria, una figura vestita di scuro bloccò loro la strada.

«Hey tu, levati che dobbiamo passare.» Parlò lui, ghignando.

«Già, chi ti credi di essere?» Commentò Giovanni.

Il giovane uomo rimase impassibile, gli occhi di un colore mai visto prima che li scrutavano, uno ad uno. Quando parlò, la sua voce melodica lasciò Matteo quasi incantato. «È un vero peccato, ragazzi, davvero. Contavo molto su di voi, e invece mi avete deluso nel profondo.»

Domenico rise, le sopracciglia inarcate. Rispose con tono arrogante. «Deluso? Ma se manco ti conosciamo?»

«Eppure io vi conosco da molto tempo.» Parlò il diretto interessato, il tono calmo e gentile. «Ma ciò che avete fatto, purtroppo, è un gesto di troppo. Non avete seguito il ruolo che vi ho affidato e siete andati contro a ciò che avevo accuratamente programmato.» Sorrise, mostrando denti non umani, facendo rabbrividire i tre ma senza lasciar loro il tempo di elaborare ciò che videro. Parlò con voce fredda, distaccata, quasi assente. «Non mi siete più utili.»

Fu l'ultima cosa che udirono.

Fu l'ultima cosa che udirono

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