Prigione

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Hesperos rimase con la schiena appoggiata anche quando una delle guardie aprì la porta per lanciare all'interno la solita pagnotta secca. Tenne lo sguardo basso, le labbra serrate tra loro, trattenendosi dal rispondere ai loro insulti.

Non aveva idea di quanti giorni fossero passati da quando Alannis l'aveva sconfitto. Strinse una mano sul bordo della tunica, che ormai aveva perso il candore, raccogliendo la polvere che si accumulava sulle pietre della cella in cui l'avevano portato i ribelli dopo averlo bendato.

Era crollato in un momento il suo regno.

Si spostò di poco, allungando una mano per raccogliere il tozzo di pane: sapeva che lo mantenevano in vita solo perché ancora speravano in un trattato con Esi. Ma suo fratello non avrebbe mai scambiato la libertà - e il trono - di Atlantide per la sua vita: si sarebbe preso entrambi, senza mostrare alcuna pietà verso i nemici.

Si sarebbe seduto sul trono e a quel punto nemmeno Alannis avrebbe potuto fare qualcosa. Avrebbe pagato qualsiasi cifra pur di vederla perdere: era riuscita a strappargli la felicità per ben due volte ed Hesperos sarebbe stato contento di vederla finalmente morire.

Si era reso conto troppo tardi dell'errore che aveva fatto a lasciarla in vita, a macchiarsi le mani del sangue di quella schiava che fino alla fine l'aveva implorato di risparmiarla, che non aveva fatto niente per meritarsi l'odio del sovrano.

Chiuse gli occhi, ingoiando a forza un boccone del tozzo di pane. Lui era abituato ai fasti, ai banchetti, alla grandezza. Ed era stato sconfitto dalla stessa persona che, per poco tempo, aveva condiviso con lui il governo di Mu.

Alannis in vita dava troppa speranza ad Atlantide, riaccendeva quegli animi che lui era riuscito a spegnere con l'uccisione di Ktesias. Aveva distrutto un popolo, ma aveva sbagliato a fare i conti con la discendenza del sovrano: Alannis non era Alexandros, non si sarebbe fatta troppe remore a tirare fuori la spada. Si portò istintivamente la mano sulla gola: se non fosse stato per Esi, la visione di Alexandros sarebbe davvero diventata realtà.

Sapeva che Alannis aveva tutti i motivi per affondare più e più volte la lama di un pugnale nelle sue carni, sapeva che era alimentata dall'odio e che non si sarebbe fermata prima che avesse avuto la vendetta che tanto cercava da tempo.

Il tozzo di pane gli raschiò la gola, come avevano fatto i precedenti che si era imposto di mangiare. Morire di fame, però, non gli sembrava una cosa così terribile: si sarebbe evitato la vergogna dell'essere giustiziato in piazza o della morte nel sonno. Sapeva che Esi l'avrebbe risparmiato per farlo morire come pensava che Hesperos meritasse: nel sonno, da solo, senza alcuna gloria.

Chiuse gli occhi. Tanti dei momenti passati a Mu non erano altro che ricordi sfuocati: erano poche le facce che ricordava bene, non c'era mai stato nessuno che gli si era impresso nella mente. Ma tutte potevano sapprezentare un pericolo per lui.

E un ricordo lo stava diventando la stessa Atlantide: se chiudeva gli occhi non riusciva più a sentire i suoni che caratterizzavano la piazza principale, non percepiva gli odori che si spandevano nei vicoli e i colori delle statue che adornavano la via che dal porto conduceva all'acropoli. Sembrava che tutto quel tempo che aveva passato su quell'isola non fosse stato vissuto pienamente.

Tuttavia, ricordava perfettamente Alexandros: ricordava come le sue mani si muovessero sul suo corpo, incerte anche nello sfiorare, come se avesse paura di spezzarlo. Ricordava come inclinasse la testa quando lo osservava, seduto sul letto, la mattina presto, quando credeva che lui fosse ancora addormentato. Ricordava quello sguardo che dalla lascivia della notte diventava improvvisamente triste, come se i sensi di colpa l'avessero colpito violentemente alla schiena.

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