Capitolo 19

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"And so I wake in the morning
and I step outside
and I take a deep breath
and I get real high
and I scream from the top of my lungs..."

Fermo.
Immobile.
Statico.

Lo scorrere del tempo sembra essersi sospeso.
Il mondo sembra aver perso i suoi colori.
Il mio corpo sembra aver abbandonato la connessione con il mio cervello.

È inutile stare zitti. È inutile scappare. È insensato fuggire quando ciò da cui fuggi ti ha appena teso una trappola. Quando tutto ciò che puoi fare è cercare di sopravvivere ancora un'altra volta.

Fermo.
Immobile.
Statico.

Il mio battito cardiaco accelerato mi rende cosciente di essere ancora vivo, di riuscire persino a respirare, seppur con fatica. Inoltre, il baccano provocato dalle automobili che scorrazzano per le vie parigine mi tiene ancorato al terreno. Anche se ammetto che l'idea di voler sprofondare all'interno dei materiali lapidei che compongono le strade di questa metropoli non smette di tormentarmi.

«Michael ti prego, non riattaccare. Ho bisogno di parlarti» si giustifica. La sua voce non è affatto cambiata, è rimasta la stessa dall'ultima volta che l'ho sentita. Così calda e profonda, nonché inconfondibile al mio udito.

«E se io non volessi parlare con te?» La mia voce, invece, è rauca, quasi spezzata dall'intensità della situazione, dal continuo sovrapporsi di emozioni. La difficoltà con cui formulo questa frase è data dal fatto che, in cuor mio, so di non voler riattaccare la telefonata, so di non averne la forza, né tantomeno il coraggio per non sentire ciò che ha da dirmi. Seppur doloroso e lancinante, devo ammettere che è quasi gradevole risentire il suono della sua voce dopo tutto questo tempo, dopo tutti questi anni. Dopo tutto ciò che è successo.

«Non puoi farlo» sentenzia sull'orlo di una crisi di pianto. La sua voce adesso è flebile. Faccio fatica a comprendere la stessa frase ripetuta più volte.

Mi allontano dall'appartamento di Éric per evitare che lui, o qualche suo vicino, possa sentire voci indiscrete o rumori molesti. Ma non so dove andare. Per qualche strano motivo non torno a casa mia, mi sembra l'opzione meno appropriata e non ne comprendo il motivo. Adesso, però, mi ritrovo in una strada trafficata, gremita di gente intenta a fare compere o ad aspettare il bus.

«Perché non posso farlo?» chiedo con tono duro, determinato, deciso. Stringo i pugni per la rabbia accumulatasi sulla mia fronte e nel mio stomaco. Mi pento subito dell'eccessiva e spontanea schiettezza. Non avrei mai voluto sentirmi costretto a rispondere in questo modo.

Per qualche istante c'è silenzio tra noi, c'è il vuoto, c'è il freddo. C'è l'immensità di una Parigi turbolenta, del mio sogno che sta per essere infranto da una chiamata inaspettata, indesiderata e del tutto non necessaria.

«Perché anche se non riuscirai mai ad ammetterlo a te stesso... » fa una pausa, ma io so esattamente ciò che vuole dirmi. Chiudo gli occhi per attutire il colpo, per non rimanere ferito per l'ennesima volta. «... sono ancora tua madre».

Fermo. Immobile. Statico.

Non è per niente facile sentire pronunciare questa maledettissima parola da lei. Un appellativo che pensavo di non dover più ripetere nella mia vita e, senza ombra di dubbio, così è stato.

Sono ancora tua madre. Chi le dà il diritto di ricordarmelo? Chi le dà il permesso di essere ancora mia madre, se così la si può definire? Ho detto addio ai miei genitori più di tre anni fa e la reputo, ancora oggi, la scelta migliore della mia vita.

Questa Sera Basto a Me StessoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora