Capitolo Trentacinque - Non era un film

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15_Gennaio_2013
Sofia Pov

Con la mia auto mandai Elena allo studio e poi dovunque volesse andare. Tata e Nali mi raggiunsero praticamente subito e fui costretta ad uscire, perché nella sala d'aspetto potevano starci solo i familiari. Mi strinsero senza dire nulla perché sapevano che non sarei riuscita a parlare. Inoltre, mi portarono da bere e da mangiare ma io non avvertivo nessuno stimolo di fame o sete e mollai tutto nella borsa.

Mi sembrava come se fossi al posto di qualcun altro. Come se fossi sul set di un film ed io non fossi il regista ma nemmeno volessi essere la protagonista.

Passarono ore, non so quante, finché la porta bianca, su cui campeggiava il divieto di accesso, si aprì e venne fuori un dottore di mezza età con lo sguardo stanco e avvilito. Mi alzai di scatto e gli andai incontro.

"È parente di Edoardo Bonelli?"

"Sì" mormorai.

"Abbiamo fatto il possibile...ma la situazione è stazionaria...parte dell'emorragia cerebrale è inoperabile...e il paziente adesso sarà trasferito in terapia intensiva" scandì lentamente lui; ma a me arrivò tutto di colpo, come una valanga che mi travolse inevitabilmente.

Poi subito dopo il mio cervello si riprese e ringraziai Dio che Edoardo fosse vivo.

"Quando si sveglierà, dottore?"chiesi.

"Questo non so dirglielo, il signor Bonelli è in coma; potrebbe svegliarsi domani, fra un mese, due anni o..." non osò finire quella frase e quella parola mi si seppellì dentro, sotterrata da infiniti perché e restai ammutolita.

"Non appena lo porteranno in terapia intensiva la farò accompagnare da lui, così potrà vederlo..." continuò.

Feci solo cenno con il capo e lui si chiuse dietro la porta bianca. Fu allora che mi sentii venire meno le gambe e mi accasciai su me stessa mentre rimbombavano nel cervello le parole del dottore.

Non era un film, era un incubo, un altro maledetto incubo, che aveva sostituito nella mia testa quello dell'incidente con Gioia.

Poco dopo mi vennero a chiamare, mi diedero un camice, dei calzari, una cuffia e una mascherina e mi condussero in una stanza in cui fra tanti macchinari accesi, immobile, scorsi il viso del mio Edoardo o meglio, ciò che non era coperto da bende e tubi. Il mio corpo cadde letteralmente sulla sedia al fianco del letto. Non alzai subito lo sguardo, fissai le sue mani e le sue braccia, fuori dal lenzuolo, anche quelle coperte di tubi. Le sue dita, le sue dita perfette, ferme, le accarezzai delicatamente, con i polpastrelli e quel tocco mi fece rabbrividire, come ogni volta che toccavo la sua pelle e allo stesso tempo mi fece disperare, perché lui per la prima volta, non ricambiò quel contatto. Lacrime mute si catapultarono dalle mie iridi annegate. Fu allora che alzai la vista sul suo volto lacerato ma ancora perfetto. Una fasciatura a coprire i capelli, che amavo spettinare e che forse non erano più gli stessi; un tubo a coprire le labbra, che amavo baciare e che mi avevano amato in tanti modi; le palpebre a coprire gli occhi di cielo, che amavo veder ridere e in cui amavo perdermi.

Non era il mio Edoardo, non riuscivo a riconoscerlo, non poteva essere. Continuai a piangere senza rendermene conto mentre le mie mani erano ferme sul suo braccio.

Volevo trasmettergli il mio calore, volevo che mi sentisse, che lì, dovunque fosse finito, avvertisse il mio amore e tornasse indietro, tornasse da me. Non dovevo perdere anche lui, non potevo.

Persa nei miei pensieri, non sentii entrare l'infermiera che mi chiamò e mi chiese di uscire perché qualcuno voleva vedermi. Non capii sul momento ma non mi soffermai a pensare e lasciando un bacio sul braccio di Edoardo, uscii.

Nella sala d'aspetto, la voce di Lucrezia mi investì. Il tono stridulo amplificò il fastidio delle sue parole. Sbraitò che non avevo alcun diritto di stare lì, che non ero nessuno, che non c'era nemmeno un anello a comprovare il fatto che fossi la sua fidanzata, come insisteva l'infermiera che mi aveva fatto entrare. Io non risposi, non ne avevo la forza, e comunque non avrei voluto litigare con lei in quella situazione. Girai le spalle ed uscii nel corridoio, subito fuori dalla porta, mi sedetti a terra, accucciandomi e poggiando la testa sulle ginocchia.

Alberto Pov

Appena Elena mi aveva chiamato e mi aveva detto ciò che era successo ad Edoardo non avevo creduto alle mie orecchie. Avevo pensato al mio amico, a quanto in quell'anno lo avessi trascurato, per colpa del mio egoismo e della mia gelosia ed ora, ero sul punto di perderlo. Poi come un lampo era arrivato il pensiero di lei. Di quanto potesse stare male, di quanto potesse sentirsi impotente davanti a quella nuova tragedia che incombeva nella sua vita. Ed ero corso a casa, avevo buttato qualche vestito in valigia e avevo preso la macchina.

Durante il tragitto avevo chiamato Elena per avere novità e avevo chiara la situazione che avrei trovato. Edoardo era in coma e Sofia era certamente disperata al suo fianco. Era sera quando arrivai al San Giovanni, feci carte false per entrare e alla fine l'infermiera si intenerì e mi diede solo dieci minuti. Ma non appena fui davanti alla sala d'aspetto, l'immagine che vidi fu ben diversa. Sofia era raggomitolata su se stessa, seduta per terra con il capo chino, stretta nel suo cappotto scuro. Il sangue mi si gelò nelle vene, pensando al peggio. In quell'ultima ora in cui non avevo risentito Elena, poteva essere successo di tutto. Tremai mentre mi chinai di fronte a lei e poggiai una mano accarezzandole la testa.

Fece uno scatto come se una scossa l'avesse attraversata in un solo istante e ritrovai i suoi occhi scuri puntati nei miei.

Vuoti, privi di quel calore che ci avevo sempre visto dentro e che mi aveva sempre attraversato i pensieri.

Non disse nulla, socchiuse le labbra ma il mio nome gli cadde in gola.

"Sofia..." mormorai "cosa fai qui? Perché non sei vicino ad Edo?"

"Lucrezia..."balbettò ed io capii subito cosa fosse successo.

"Le parlo io...Edo è...?" mi bloccai.

"In coma..." balbettò ancora.

La aiutai a sollevarsi e non appena si sostenne sulle gambe, si gettò su di me, di slancio, così tanto che traballai e la afferrai con le braccia. Il suo calore mi pervase e il suo odore mi assalì mentre iniziò a muoversi presa dai singhiozzi. Non ero pronto, non avrei voluto essere lì: né perché il mio migliore amico era in coma, tanto meno perché lei, addosso a me, aveva fatto cadere ogni certezza, ogni barriera che avevo faticosamente tirato su quando avevo scoperto che era la donna di Edoardo. Ed avrei voluto solo stringerla più forte, annegare il mio viso tra i suoi capelli e dirle che mi era mancata da impazzire e non l'avrei più lasciata.

Amami come Mai © #Wattys 2020Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora