ARCOBALACQUI

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L'uomo non può mai smettere di sognare.
Il sogno è il nutrimento dell'anima,
come il cibo è quello del corpo.
Molte volte, nel corso dell'esistenza,
vediamo che i nostri sogni svaniscono
e che i nostri desideri vengono frustrati,
tuttavia è necessario continuare a sognare,
altrimenti la nostra anima muore e
Agape non può penetrarvi.

(Paulo Coelho)

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Uno strano silenzio all'alba avvolge la piccola cittadina di Arcobalacqui a sud occidente e dove la gente è ancora nei suoi letti, caldi per la notte appena trascorsa.
Da lontano questo piccolo miracolo di luci, intersecate tra loro, per la particolarità che hanno le forme appuntite dei tetti delle case su cui si rifrangono i colori e il loro riflesso creato dagli innumerevoli specchi di acqua, crea un gioco di luci caleidoscopico, per i quali il paese ha assunto nel tempo il suo bizzarro nome.
Le vie sono piuttosto strette, curve e in salita o discesa dove per muoversi viene pratico l'utilizzo di veicoli a due ruote, pattini o monopattini, oppure elettrici, per andare al lavoro o a scuola o semplicemente andando a piedi.
Per uscire dal paese si usa invece il treno o la navetta per attraversare i vari laghi o fiumi di Arcobalacqui, anche le barche di piccola stazza sono ampiamente usate per collegare il paese con i comuni circostanti, rendendo il paese una piccola Venezia di canali artificiali resi navigabili da un ingegnoso sistema di chiuse, creati al tempo della bonifica di quei luoghi.

«Lele sbrigati se no fai tardi», lo chiamava suo padre.

«Arrivo», gridava Samuele dalla sua camera mentre afferrava lo zaino di scuola e si precipitava in cucina dove l'aspettava una tazza di latte con fiocchi di avena, i suoi preferiti, biscotti e marmellata. Un giovane dall'aria sbarazzina, capelli rossi a spazzola e con lo sguardo perso e colmo di lentiggini.
Samuele, da tutti chiamato Lele e soprannominato "Lele lo strano" per via del suo essere perennemente sulle nuvole o a parlare da solo, aveva appena compiuto i diciassette anni e abitava con suo padre, il meccanico del paese ben stimato e ricercato.
Amava il suo lavoro, fin da piccolo adorava smontare e ricostruire, un modellino di auto in particolare lo eccitava moltissimo, una Jaguar E-Type di colore nero.
Per la maggior parte del giorno se ne stava nascosto nel garage di casa imbrattandosi di olio e grasso da testa ai piedi, per la rabbia di sua moglie, brava donna dedita alla casa e alla famiglia.
Egli sapeva riparare un motore completo, sostituire il pezzo rotto, lavare e distribuire a terra tutti i pezzi per poi ricomporli perfettamente. Possedeva una memoria fotografica. Lele amava sognare e fantasticare e stava spesso con il padre aiutandolo nel suo lavoro per far si che lui ne fosse fiero e finendo sempre per non esserne all'altezza o perché non trovava il ferro giusto da passare al padre o ancora perché sbagliava ad assemblare una parte che lui gli affidava.
D'altronde Lele non era portato per i lavori manuali e minuziosi.
Lui era amante della natura e della musica.
La libertà e l'arte erano la sua passione come lo erano per sua madre.
Dopo la morte prematura della moglie per una malattia invalidante, il padre si era tuffato nel lavoro anima e corpo, passando così sempre meno tempo con il figlio mentre Lele sentiva sempre di più il divario che c'era tra loro e che lo allontanava in un altro mondo, quello dentro di sé colmo di solitudine e tristezza.
Aveva di brutto scaricato Lele a sua madre, la nonna paterna, che lo aveva cresciuto come una seconda madre fino a quando morì precocemente poco dopo la scomparsa della moglie. Lele crebbe sempre più solo e chiuso, ogni giorno metteva tra sé e gli altri un mattone nel muro che li divideva, troppo arrabbiato con i genitori per averlo abbandonato.
Era intelligente ma indisciplinato, la nonna materna,Tina, con la quale il padre di Lele non andava d'accordo ma, alla quale era stato costretto ad affidarlo, aveva fatto fatica tenerlo. Cercò di fargli avere degli amici ma i soli compagni di Lele furono i libri della nonna Tina e il flauto dolce della madre Linda, che era stata una valente flautista al Gran Teatro di Miliapus situato in una cittadella in cima ad una montagna tra i resti di antiche mura, un tempo cerchie murarie di un castello distrutto dalle cannonate in guerra ma ancora ricco di ricordi e segreti passati e mai scordati.
Passeggiare tra le sue rovine prima di raggiungere il teatro preceduto da mille gradini in pietra e da cui traeva il suo nome, era come rivivere quei momenti pregni di storia ed emozioni.
Poco più avanti si potevano trovare i resti delle fucine degli antichi fabbri, come testimoniato dal pezzo di camino utile per forgiare le spade o le armature o ancora vecchi carretti da trasporto senza più le ruote e pieni di arbusti e foglie, sempre camminando su stradine antiche risalenti ai fasti dell' impero romano.
Sembrava di sentire le urla e i combattimenti degli antichi e valorosi cavalieri di Miliapus, i quali, almeno secondo la leggenda, difesero con le unghie e i denti l'antico Palazzo Ducale e il ponte levatoio dai famigerati Cavalieri del Drago, guidati dal drago Gerundo, Sire rettile che governava sulla Prima Terra, grazie anche alle arti oscure dell' alchimista Methella, bella almeno quanto sapiente e letale.
Sembrava di sentire lo stridore del ferro delle loro armi e corazze in contatto, gli zoccoli frenetici dei cavalli di battaglia sopra la quale impavidi condottieri si distinguevano per la loro forza e abilità e le loro voci incitare il re.

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