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Mi hanno insegnato che, quando due cuori sono scostanti e feriti nel profondo, l'amore rappresenta una malvagia esposizione del dolore. La causa di ogni male. Ma come si agisce, invece, quando si valuta la parte buona della medaglia, ed è un animo gentile a rompere l'equilibrio e alterare le proprie ambizioni? Come fa un cuore, vivacemente esaltato, a pulsare senza sosta per uno sconosciuto, solo per aver ricevuto il suo sguardo? Può una complicità d'occhi far perdere la bussola del tempo, stravolgere le emozioni e far delirare i pensieri? Si dice che si sente l'estremo bisogno di cercarla, di avvertire il brivido sulla pelle, di annidare la sua presenza nella mente, fino a rapirti l'animo in un risucchio senza fondo. Sembra una cosa spaventosa innamorarsi e, nonostante le sue controversie, come può Dio permettere a una creatura terrena di anteporsi alle scelte, fino ad arrivare a sacrificarsi per essa?


Io non ho mai creduto nell'amore, ma un giorno fu l'eccezione a venirmi a cercare, per generare un immane mutamento nella mia vita.


Nella natura incontaminata delle bianche scogliere del Sud-Ovest, nella contea di Dorset, esiste un piccolo villaggio con circa centotrentacinque abitanti. Esso si affianca a paesi limitrofi, destinati alle mete estive di molte famiglie ricche londinesi, e possiede la particolarità di un tipico luogo di epoca romana, fuso con lo stile dei cottage inglesi. A causa del ridotto numero demografico, in passato, molti compaesani si spostarono in città più grandi per cercare lavoro e il villaggio si disabitò, a parte qualcuno che gli era legato. Nella comunità persisteva da tempo un'aria quieta: si rispettavano le regole, si temevano i pregiudizi e bisognava stare attenti ed evitare di essere al centro dell'attenzione. Un'aria soffocante per una giovane con ambizioni di esperienze più significative e autentiche. Perciò, bramavo il segreto desiderio di evadere.


Il mio nome è sempre stato sinonimo di discussione: Isabel Bourgeois, o chiamata semplicemente Is. Lavoravo da sempre nell'emporio di mia zia Daisy. Vivevo con lei e mio zio Harry dall'età di cinque anni e sono cresciuta come figlia loro, dopo che i miei genitori si separarono. Mia madre Emily intraprese una storia clandestina con un ingegnere di Swanege per poi trasferirsi a Bristol, e mio padre Julian, impaurito dall'idea di crescere una figlia da solo, inseguì il desiderio di tornarsene nella sua terra parigina. Ovviamente i pettegolezzi sulla nostra famiglia fioccarono per via delle loro scelte sconsiderate, affermando perfino che la causa della rottura tra i miei genitori ero io. Oltre il dolore di essere un'orfana di un matrimonio avventato, c'era anche la beffa di sopportare quelle ingiurie. Con tristezza accettai la reputazione che su di me ne conseguì, ma i miei zii difesero quel poco che rimase del nostro onore, tendendo testa ai pettegolezzi e proteggendomi. Il loro intervento diventò per me l'esempio della forza che una sana dignità può manifestare, e di conseguenza imparai a reagire. Compresi con il tempo che era meglio farmi scivolare addosso le malelingue, e non far dipendere la mia esistenza dai pareri altrui. Entrai, perciò, nell'ottica di dover conviverci. Non era giusto soffrire per colpe che non avevo. Le scelte dei miei genitori non corrispondevano alla mia identità. In effetti, molti compaesani non tolleravano la mia presenza per la forma di libertà di pensiero da cui derivavo e, che alle volte, manifestavo senza il consenso dei miei zii, ma quando la culla di una vita famigliare va in frantumi, ci sono poche scelte da prendere: o assorbire e tacere o comportarsi da disinteressati cinici e tenere testa. I tempi che correvano, quelli del secolo del bigottismo, non permettevano di farlo con spontaneità e senza ripercussioni. Le regole comportamentali erano rigorose, attentamente osservate; eppure, c'era sempre qualche pecora nera, nel gregge, che tentava di distinguersi dalla massa. Mio padre, prima di fuggire via, mi disse che per cambiare il mondo bisognava spiccare il volo e affrontare il proprio viaggio nella vita. Io credetti a quelle meravigliose parole colme di immagini di libertà assoluta, che fece alimentare il desiderio di osare nella mia immaginazione.


Sono nata nel 1918, anno della fine della prima guerra mondiale e, al contempo, epoca di introduzione nel mondo dell'arte e della cultura, delle avanguardie e dalle rivoluzioni dei costumi e sociali. Stavo per compiere vent'anni e, nel 1938, la cosa più importante che aleggiava nell'aria era la cruciale paura di una nuova guerra che avrebbe coinvolto di nuovo il mondo. C'erano pesanti voci sulla Germania e delle sue pretese di riconquistare i territori perduti nel primo conflitto, e l'Inghilterra, come altri Stati Europei, non potevano permettere che un nuovo catastrofico conflitto si ripetesse. Sui giornali si parlava di mediazioni tra i governi e questo ci garantiva uno spiraglio di luce in quei tempi bui.


Ma non c'era solo la guerra a far parlare di sé. Le moderne innovazioni, i nuovi letterari rivoluzionari e l'arte del Surrealismo erano al centro dell'attenzione.


Adoravo molto la cultura artistica, tanto da esserne eccellentemente informata, mentre mia zia era una donna dedita al lavoro e alla famiglia. Dopo la morte di mio zio, zia Daisy si abbatté molto. Prima della sua scomparsa sapevamo del suo malessere e dell'esito: un tumore ai polmoni. La notizia ci devastò notevolmente, per questo decidemmo di realizzare ogni sua esigenza, perfino quella di viaggiare verso la Germania e appagare il suo ultimo desiderio: rivedere la famiglia di sua sorella che non incontrava da diverso tempo. Trascorremmo giorni leggiadri, pieni di armonia nella casa degli zii tedeschi, senza avvertire il peso della malattia e credere che il viaggio gli avesse dato i benefici sperati, ma pochi giorni dopo il nostro rientro ci abbandonò lasciandoci sole.


Ormai erano trascorsi tre anni da quando convivevamo con quel lutto e le cose non erano migliorate granché. Non avendo figli e avendo solo lui come famiglia prima del mio arrivo, a zia Daisy crollò il mondo. Come buona figliastra le restai accanto, restituendole un po' di tranquillità smarrita. Tentai di tutto per tenerla occupata, programmandole la giornata. La mattina, prima di andare a lavoro, facevamo una passeggiata nel parco o al mare per godere istanti di calma apparente. Il pomeriggio per l'ora del tè, invece, invitavamo le nostre amiche di una vita: la signora Shaw, Elise, che spesso chiamavo zia, e sua figlia Rosalyn, tra l'altro la mia migliore amica. Rosalyn era la secondogenita della famiglia Shaw. Suo fratello maggiore, Stephan, partì molto giovane per cominciare a studiare. Una volta lo consideravo il mio migliore amico, il mio confidente e mio fratello. Contavo su di lui per qualsiasi cosa. Per fortuna, grazie alla dolcissima Rosalyn, la sua assenza fu colmata dalle attenzioni che la sua famiglia ebbe per noi, continuando a sostenerci dopo la disgrazia che ci colpii. Con zia Elise e Rosalyn trascorrevo pomeriggi piacevoli, come fanno tutte le donne. Momenti spensierati, necessari per ristabilire mia zia.




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