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Quella sera, come tante altre precedenti, crollai subito nel mondo dei sogni e il mattino seguente mi svegliai pronta ed energica per affrontare la giornata. Il lavoro fu intenso e a metà mattinata zia Daisy mi commissionò di portare la merce ordinata alla signora Richardson.
«Is, potresti portare questi ad Alisya?» Chiese, gentilmente.
«Sì» le risposi distratta, finendo di leggere l'ultima parte del capitolo del mio libro. Ero poggiata sul bancone ed ero abbastanza comoda.
«Isabel?» Mi richiamò con più autorità. «Potresti lasciare quel libro?»
«Sì» alzai gli occhi al cielo scocciata, lasciando il libro e mettendo il segno sulla pagina a cui ero giunta.
«Giacché ci sei, perché non dai un occhio a quello che dispone? Elise mi ha detto che Rosalyn ha trovato un bellissimo abito da lei. Potresti trovare qualcosa che ti piace»  suggerì.
«Sì, va bene. Darò un'occhiata, così se lo trovo lo prendo.»
«No, cara. Abbiamo concordato che nel pomeriggio ci saremo andate insieme. Così posso darti un consiglio» ci teneva a essere presente nelle mie scelte, ma a differenza sua non mi interessava affatto vedere qualcosa. Non mi importava né della festa, né di cosa avrei indossato.
Uscii dall'Emporio e mia zia mi diede tra le mani il pacco di stoffe e merletti. Pesavano moltissimo e speravo di non sgualcirlo ancor prima di aver effettuato la consegna.
«Qualcosa di più leggero, no?» Mi lamentai.
«Perché non ci vai in bici?» Mi consigliò.
«No. Credo di farcela anche a piedi.»
«Mi raccomando, sta’ attenta. Non fare tardi e non rovinarle!» Gridò, mentre mi incamminavo, notando con quanta poca accortezza le trasportassi. Non le risposi, poiché ero già lontana, ma durante il tragitto il peso si avvertì sulle mie braccia e la vista non mi favoriva una buona visuale a causa del volume del pacco. Cercai di concentrarmi il più possibile per restare stabile e non cadere, considerando il fatto di non andare molto d'accordo con l'equilibrio, e per arrivare prima presi la via più corta che congiungeva con la casa di Rosalyn. Ero quasi arrivata, sopportando faticosamente il dolore alle braccia per via del peso, ma in un momento di spossatezza, cedetti. Lasciai il pacco a terra e lo presi a calci.
«Stupido pacco pesante. La prossima volta prenderò la bici» parlai a me stessa, toccando le braccia. Sospirai pesantemente guardandomi  attorno, magari avrei trovato un aiuto. Negata quella eventualità, dopo il primo sforzo, ripresi il pacco e avvertii  il suo peso come se fosse un macigno, ma continuai verso la mia destinazione.
«Un altro po'» incoraggiai me stessa, affaticata. Non vedevo l'ora di arrivare. Invece di vedere dei vestiti pensai di andare a prendere qualcosa da mangiare al caffè di David e rimettermi in forze. Forse un buon gelato. Li adoravo, soprattutto il gusto fior di latte, e ringraziavo, a ogni assaggio. l'uomo che gli avesse inventati. Presa dalle mie fantasie, inciampai in una piccola buca, che fece volare il pacco dalle mie mani e sfiorò un passante. Non mi resi conto subito di cosa fosse successo, ma udii il suono di una voce maschile che esclamò qualcosa per lo stupore. Mi girai nella sua direzione per chiedere perdono  e fu lì che lo notai. Era di spalle, impegnato a distendere la camicia dentro le bretelle con discrezione. La nuca china, le spalle dritte e larghe, leggermente ricurve in avanti per la sua azione, e la sua vita sottile, evidenziata dalla camicia inserita nella cinta dei pantaloni. Quando si voltò e lo riconobbi, la mia persona avrebbe voluto scomparire per il disagio che si era creato, e non essere soggetta a quella imbarazzante situazione. Tutta la sicurezza e sfrontatezza dimostrata con un gioco di sguardi la prima sera, stava vacillando per un piccolo errore di svista. Se solo avessi preso la bici non sarebbe successo e non sarei incappata nel signor lo so che mi fissavi.
Mi morsi l'interno del labbro inferiore dalla rabbia. In poco tempo lui si ristabilì, togliendo il cappello dalla testa e mettendo sottobraccio la sua giacca. Per fortuna sembrava a posto. Senza badare a chi avesse scaturito l'impatto, mi venne in soccorso.
«Sta bene?» Domandò con voce profonda, dandomi del lei con modi distaccati. 
«Sì» evitai lamentele, toccandomi ancora le braccia doloranti. «Mannaggia al gelato!» Esclamai più a me stessa che a lui, tentando di alzarmi da sola e constatando di aver preso una storta. Gemetti a bassa voce per la sofferenza. L’uomo, intercettando la mia difficoltà, mi offrì la sua mano per aiutarmi. L'accettai senza indugi e, al suo contatto, la mia pelle percepì leggeri brividi, accompagnati da scosse elettriche che svegliarono sensazioni sconosciute per il mio corpo, investito in quell’istante da un'intensa di ebbrezza. Spaventata, ritirai immediatamente la mano e l'abbassai per interrogarla con sospetto, segretamente.
Come c’era riuscito? Era un generatore di corrente?
Appena decisi di alzare il viso e osservarlo, i suoi occhi, neri come pozzi profondi, mi bloccarono. Rimasi immobile come una sciocca, abbacinata dal suo aspetto, tanto da sembrare che il tempo fra di noi si fosse fermato. In cerca di risposte su ciò che mi stava succedendo, spostai gli occhi su ogni centimetro del suo viso per confermare le mie precedenti considerazioni. La lontananza e il buio di quella sera davanti alla piazza non avevano mentito: quell’uomo era davvero bello. Aveva i capelli di un nero intenso, ordinati e tirati all’indietro, segnati a destra da una riga laterale;  il mento era perfettamente squadrato, il naso dal profilo greco, le sue labbra carnose erano accompagnate da    due fossette  sulle guance, sembrando quasi disegnate; e infine due occhi dall’espressione dolce, ingenua e anche furbastra. Possedeva tutti i parametri della bellezza di un uomo, ma infine percepii  un ultimo elemento: il suo odore. Indossava una buonissima acqua di colonia dai toni legnosi e maschili, che inebriava le mie narici e la mia testa. Era impeccabile in ogni piccolo particolare.  Non avevo mai visto una creatura meravigliosa come lui. Non era da me affermare una cosa simile.                                                 
Mi risvegliai dal mio stato di trance, mentre lui non comprendeva   il mio atteggiamento. 
«Cosa c’entra il gelato, adesso? Sicura di star bene, signorina?»
«Sì» mi ripresi in fretta, evitando di rispondere.
Che gran figuraccia! Dovevo esser sembrata un'imbranata. Tentai di ristabilirmi e riprendere il controllo di me stessa, interessandomi del suo stato. Era il minimo per ricambiare la sua cortesia.
«Spero di non averla ferita.»
«No. Mi ha solo spaventato» sorrise sghembo. Aveva un’espressione bellissima e spontanea, da incantarmi. Ridestai ancora una volta da quelle sciocchezze. Ormai non ci trovavo più nulla di sensato nella vicenda.
«Le chiedo scusa» cercai di apparire disinvolta e per niente sopraffatta dall'evento. In realtà l'odioso sentimento della timidezza stava emergendo ancora una volta, ma non le avrei permesso di padroneggiare. Non lo avevo mai fatto.
Frettolosamente, senza badare alla pesantezza del pacco, lo raccolsi da terra e, udendo lo scocco della campana delle undici, mi apprestai con la caviglia dolorante ad arrivare all'atelier.
«Adesso devo andare o farò tardi. Mi scusi.» mi incamminai. 
«Si figuri. Stia tranquilla, signorina. Le porgo i miei ossequi» concluse con riverenza. Immediatamente mi rigirai a guardarlo scettica, porgendo a me stessa seri dubbi di non aver colpito sulla testa. Una frase così rispettosa per una banalità, con una sconosciuta non altolocata mi sembrava troppo. Mi trattenni dal scoppiargli a ridere in faccia, già in difetto per il pacco, contenendomi però con un ridacchiare silenzioso.
«Anche buona giornata va bene, signore.»
Gli diedi le spalle e lo lasciai per percorrere i pochi metri che mi separavano dall'atelier. Appena mi annunciai con il suono del campanello, Carole, l’assistente della signora Richardson, mi aiutò a prendere la roba e poggiarla sul banco.
«Finalmente sei arrivata!» Esclamò la modista, con tono severo.
«Sì, mi scusi. Ho avuto un piccolo incidente. L'importo è sull'incarto della merce.» mi giustificai, ma la signora Richardson non si degnò di rispondere. Alzò fastidiosamente gli occhi al cielo e storse le labbra. Mi era particolarmente antipatica, non solo perché peccava di un’immonda superbia, ma perché le piaceva umiliare la gente. Spesso mi chiedevo da chi avessero preso Robert e Thomas. Erano completamente l'opposto della madre.
«Dov'è lo scontrino, Isabel?» La signora Richardson mi riportò con la sua acida voce alla realtà. Guardai il pacco e lo girai in tutte le direzioni, notando che realmente mancava.
«Non c'è niente» disse Carole, avvicinandosi. «Ti ricordi quant'era?»
Trasalii. Forse lo avevo perso durante la caduta e per di più non avevo visto neanche l'importo.
Chi doveva sentirsi le lamentele di zia Daisy!
«Ecco qui» rispose una quarta voce dal timbro maschile alle nostre spalle, sorprendendomi. Mi girai per vedere chi fosse e vidi che era nuovamente lui. «Le è caduto poco fa, ma non ho avuto modo di poterglielo ridare» sorrise, lanciando una rapida occhiata. Ero davvero sollevata di non averlo perso.
«Grazie, signore.»
«Si figuri, signorina. Cose che capitano» rispose con gentilezza.
«A lei troppo spesso...» si intromise la signora Richardson, acida. «E per curiosità, che cosa è successo al pacco? Sembra che tu l'abbia preso a calci. Vedi, c'è un'impronta» torva, indicò con la mano piena di anelli d'oro un punto del pacco.
«Io non ci vedo niente» mi giustificai con ingenuità, pulendo velocemente il difetto con la mano, ma a incidere sulla vicenda ci fu lo schiarirsi della voce del giovane uomo alle mie spalle, che nascose il suo divertimento.
«Sembra maltrattato?» Mi rivolsi a lui, sperando in una collaborazione improvvisa. Il ragazzo, visibilmente sorpreso della mia sfacciataggine, rimase perplesso dalla mia  confidenza, ma per fortuna, non badando alla mia sfacciata indecenza o alle prove evidenti,  resse il gioco.
«No, sembra tutto a posto» si avvicinò a me per vedere il pacco. Soddisfatta della sua attendibilità, volsi uno sguardo vittorioso verso la signora Richardson per risponderle con insolenza.
«Come non detto.»
La signora Richardson perse le staffe. Arricciò e distese le labbra rosse, evitando di fare un'altra figura con i suoi nuovi clienti. 
«Che lingua lunga che hai, signorina! Glielo riferirò a Daisy. Soprattutto del ritardo e delle conseguenze della merce.» mi ricattò e solo allora mi obbligai a rimanere zitta. Zia ci teneva a fare bella figura. Intanto, alle mie spalle, il giovane uomo si spostò. Si direzionò verso l'altra parte dell'atelier, atteso dal suo inseparabile accompagnatore. Era accomodato a uno dei divanetti della sala d'attesa e, con aria spazientita, fece accomodare il ragazzo alla seduta accanto a sé con un cenno. Insieme adocchiarono nella mia direzione, attendendo l'arrivo della sarta.
«Questa volta sorvolerò, ma alla prossima sarò io stessa ad avvisare Daisy. Dovrà darti una bella lezione prima o poi. Ti concede sempre clemenza.» ricominciò a borbottare la signora Richardson. Mi girai verso di lei e con poca delicatezza poggiò i soldi tra le mie mani.
«La clemenza viene concessa a chi la merita, signora» le risposi con insolenza. In quell’istante qualcuno, dall’altra parte della stanza, udii la mia risposta, emettendo un accenno di sorriso, e incitata dal quel suono delizioso sorrisi anch'io, facendo arrabbiare ancora di più la signora Richardson.
«Tu, di certo, non la meriti!»
«Non si scaldi tanto o dalla collera le potrebbero venire le rughe d'espressione, e lei non può permettersi un fatto del genere. È una bella donna e dovrebbe preservarsi.»
Alla mia frase lei s’infiammò, tagliandomi con i suoi occhi verdastri.
«Le rughe d'espressione? Stai dicendo che sono vecchia?»
«No, al contrario» feci un colpo di tosse per non riderle in faccia spudoratamente. Conservai i soldi nella tasca della mia gonna e decisi di andare via, ma prima di salutare la signora Richardson e tutti i presenti, la porta si aprì e a entrare fu Robert.
«Ah bene, Is. Ti cercavo. Sono stato da tua zia» entrò senza salutare.
«Ah! Se avessi saputo non mi sarai scomodata e avresti portato tu la merce qui» mi lamentai, indicando sua madre. Se mi fossi ricordata prima che era il suo giorno libero, avrei consigliato a zia di chiamarlo direttamente. Robert e Thomas lavoravano con il signor Richardson alla Banca di Swanage.
Al nostro dialogo la signora Richardson, indispettita, riprese il figlio per le cattive maniere.
«Robert, si saluta» indicò dall'altra parte del negozio i clienti in attesa. Lui si girò verso di loro e con un lieve imbarazzo e le dovute scuse, li salutò. Il signore non si interessò affatto del suo saluto, ma il ragazzo ricambiò educatamente. Dopo le cordialità, Robert si voltò ancora verso di me e mi propose di accompagnarlo.
«Bene, andiamo» mi porse la mano, ma la rifiutai.
«Non sia mai. Tua madre potrebbe fraintendere» la indicai con gli occhi e  impertinenza. Robert e io scoppiammo in una fragorosa risata, sia per urtare i nervi a sua madre e sia perché nella nostra amicizia non c'erano quelle questioni. Quando si cresce in gruppo da bambini è normale essere come fratello e sorella, nonostante non fosse ben visto avere un rapporto d'amicizia aperto tra uomini e donne. Si pensava sempre al marcio. Soprattutto per queste ultime.
Robert aprì la porta per farmi uscire. Appena fuori, sentii la proprietaria dell'atelier criticarmi furiosa con la sua assistente.
«Ragazza insolente e senza maniere. A causa di quel francese, adesso abbiamo una rogna. Più cresce e più peggiora.»
Non mi toccavano più i suoi commenti. Erano naturali, perciò mi divertivo a tormentarla spesso. Robert, udendo le sue parole, , la giustificò.
«Devi scusarla. A volte perde le staffe» ci incamminammo.
«Non preoccuparti, Roby, ma sappi che, almeno, ti sto facendo un favore con Rosalyn.»
Lui diventò rosso dalla vergogna. Si agitò nel darmi una motivazione.
«Come? No. Non c'entra. Mia madre adora Rosalyn. Certo, più di te, ma non c'è nulla tra di noi.»
Lo guardai con aria ovvia.
«Un giorno mi ringrazierai e la troverà adorabile, appena ti deciderai. Adesso andiamo da David. Voglio un bel gelato.»
Robert, intuendo la verità, annuì e abbassò la testa. Per diverse ragioni emettemmo dei risolini di natura quasi isterica e, ignorando l’inconveniente di aver urtato la sensibilità di quella donna  giungemmo da David. Per le ostentazioni manifestate, ero certa che non sarei andata dalla sarta per acquistare un abito e, pur di accontentare mia zia, lo avrei creato da sola a ogni costo.


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