3 Novembre 1960, Berlino.

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Caro Diario, oggi è stato proprio un bel giorno. Un po' diverso dagli altri. Forse perché Liz era assente e suona così cattivo a dirlo ma lo diresti anche te perché ogni volta che c'è lei non fa altro che farmi sentire soffocato. Però è successa anche un'altra cosa a parer mio bellissima.

Oggi la professoressa di matematica non c'era, così non sapendo che fare ho girato un po' per la scuola. Sono arrivato persino al quinto piano, il piano in cui ci sono quelli di quinta dove noi non abbiamo accesso ad andarci, ma senza farmi vedere sono stato anche lì. Mentre camminavo per il corridoio ho sentito qualcuno suonare il pianoforte dalla sala musica. Così mi sono avvicinato. Il mio cuore perse un battito nel vedere che era proprio Louis a suonarlo. E Dio, suona così bene. Sembra che sia nato per far quello. Amo il modo in cui suona, delicato e allo stesso tempo deciso. Mi sono appoggiato allo stipite della porta incrociando le braccia al petto e chiudendo gli occhi lasciandomi completamente trasportare da quella melodia. Giuro che starei stato ore in piedi a sentirlo suonare. Mauna volta che terminò, aprii gli occhi trovandolo con lo sguardo perso sui tasti neri e bianchi.

«Sei davvero bravo.» gli dissi preso da un coraggio non mio. Louis alzò di scatto la testa guardandomi prima leggermente spaventato, poi più tranquillo.

«Oh beh... Grazie, davvero. Vieni, siediti qua.»

«O-okay.» gli risposi per poi andare a sedermi sullo sgabello nero del piano al suo fianco.

«Louis Tomlinson.» disse porgendomi la mano.

«Harry Styles.» risposi stringendogliela. Adesso, okay non prendermi per pazzo. Ma. Quando ho stretto la sua mano, è stato come se l'avessi già stretta prima. E fu così che realizzai che forse quella persona della festa era proprio Louis. Mi persi diversi minuti buoni a pensare e fissare le nostre mani ancora unite, forse dovevo sembrargli strano, ma a me serviva qualche minuto per riprendermi, non solo, anche il mio colorito sul viso non era da meno. E poi i suoi occhi così azzurri non me li sarei mai dimenticati e infatti dopo aver pensato a lungo, una delle poche cose che ricordo di quella famosa festa era qualcuno guardarmi con due bellissimi occhi come i suoi.

«Stai bene?» mi chiese sciogliendo la presa con le nostre mani per posarmi una mano sulla spalla e guardarmi preoccupato.

«Si, scusa stavo pensando.»

«Oh»

«T-tu non sei di qua?»

«No,» rispose sorridendo. «vengo dal Regno Unito, da un piccola città che si chiama Doncaster. La conosci?»

«No...» dissi imbarazzato.

«Immaginavo, non è molto conosciuta.» disse ridendo. «Che anno frequenti?»

«Quarto, tu?»

«Quinto. Hai diciassette anni giusto?» 

«Si, e tu?»

«Venti.»

«E se posso chiederlo, come mai hai deciso di venire proprio qua a Berlino?» gli domandai, perché secondo me non era molto conveniente trasferirsi a Berlino dopo la seconda guerra mondiale e tutto quello che era successo in questo paese e che c'era in atto.

«Mio padre è un soldato, l'hanno trasferito qua.»

«Oh capisco. Beh ti piace la città?»

«Insomma è un po' triste...»

«Ehi!» lo ripresi scherzosamente dandogli un colpetto sul braccio abbastanza da farlo ridere. Neanche a me piaceva molto la Germania e quello che alcune persone avevano fatto, ma era pur sempre il luogo in cui ero nato.

«Ma è vero, voi tedeschi siete tremendamente noiosi...» iniziò a scherzare avvicinandosi al mio viso con uno sguardo furbo. Neanche ci conoscevano e scherzavamo così... è stato strano per me, di solito non mi lascio andare facilmente con le persone ma con lui è stato diverso.

«E-e voi inglesi allora?» ribattei iniziando ad arrossire per la sua vicinanza.

«Noi inglesi cosa?» rispose Louis talmente vicino al mio viso che se mi fossi sporto le nostre labbra avrebbero potuto toccarsi. Io, preso dall'imbarazzo tentai di arretrare ma solo quando il mio sedere fu sul pavimento mi accorsi che lo sgabello era terminato. Louis scoppiò a ridere talmente forte che dovette tenersi la pancia, mentre io arrossivo ogni secondo che passava.

«Scusami non volevo spaventarti.» mi disse alzandosi e porgendomi una mano per aiutare ad alzarmi. Ma io fui più furbo di lui, così sì, gli presi la mano, ma lo tirai giù in modo da farlo cadere al mio fianco. Lui iniziò a ridere un'altra volta e anch'io questa volta mi unì a lui, però poi mi alzai velocemente congedandomi con un «Ci vediamo inglese.» lasciato poi a mezz'aria mentre uscivo da quella sala per tornare in classe mia. Ma mentre camminavo mi resi conto che la sua risata era uno dei suoni più belli che ci fossero e per tutto il giorno non sono riuscito a pensare ad altro. 

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