V E N T I D U E

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Punto di vista di Adaline Watson

Secondo l'antico orologio a parete sono trascorsi 53 minuti da quando Myles se n'è andato, chiudendo la porta a chiave dietro di sé. In quei minuti sono stata disperatamente in cerca di una via di fuga.

Quando i miei occhi e la mia mente non sono in grado di trovare qualcosa di utile, porto la mia attenzione sulla catena di metallo appena arrugginita che mi è stata stretta alla caviglia destra. Fra il freddo metallo e la mia pelle è presente un piccolo spazio vuoto, ma non abbastanza affinché possa sgusciare il piede dalla morsa. Non sembrano esserci spigoli vivi lungo la giunzione della morsa, e la catena non presenta punti indeboliti o usurati dalla posizione inclinata in cui mi trovo.

Ho paura di muovermi. L'agonia del mio fianco si fa sempre più insopportabile con ogni respiro che prendo. Temo che se mi agiterò più di quanto abbia già fatto io possa peggiorare la mia condizione, ma mi rifiuto di restare ferma e non fare niente—attendendo solamente che lui ritorni e faccia ciò che desidera la sua mente malata.

Sospiro profondamente ed isso i palmi sul materasso sotto di me, spingendomi in una posizione seduta. Mi mordo quindi con forza il labbro inferiore per evitare di lamentarmi dal dolore causato dal minimo movimento. Serro gli occhi con così tanta forza da vedere le stelline bianche danzarmi davanti agli occhi, in sincrono con il dolore appena sotto la mia cassa toracica. Con la mano tocco delicatamente la benda a copertura della mia ferita, la garza è tenuta insieme da del nastro adesivo.

Non voglio nemmeno immaginare che aspetto possa avere la mia ferita sotto la benda. Mi vengono i brividi alla pessima ricucitura che potrebbe infettarsi da un momento all'altro: qualcosa che potrebbe farmi morire se non trattato a dovere. Invece di sguazzare in questo tipo di ipotesi, le metto da parte, così come il dolore che provo, quindi scivolo con attenzione verso la fine del letto per analizzare i movimenti che la catena pesante mi permette di realizzare.

Afferro quindi la catena con la mano per evitare che sbatta contro la pediera del letto, quindi porto i piedi sul freddo pavimento di cemento. Grugnisco appena quando cerco di spostare il peso su questi ultimi nel tentativo di alzarmi in piedi, e mi vengono le vertigini facendo mutare gli oggetti in stanza in forme innaturali. Faccio fatica a restare su due piedi, ma ho successo dopo qualche secondo in cui ondeggio in cerca di equilibrio.

La catena sbatte leggermente contro al letto quando faccio ciò, ma non abbastanza rumorosamente da sollevare sospetti nel mio rapitore. Procedo quindi debolmente, reggendo la catena con le mani mentre faccio scivolare i piedi in nessuna direzione in particolare. Mi allontano di circa un metro dal letto quando la catena s'irrigidisce raggiungendo il proprio limite.

"Okay" mormoro fra me e me quando mi rendo conto del mio raggio d'azione.

In questo metro di libertà trovo alla mia destra un piccolo tavolo bianco, adornato per un tea party e completo di stoviglie di plastica da bambini. Due delle quattro piccole sedie sono occupate da peluche, entrambi posizionati in modo che sembra che si stiano allungano verso le proprie tazze. Ignoro la scena inquietante e mi allungo il più possibile, afferrando una forchetta di plastica rigida. Se potessi utilizzarla per aprire la serratura della catena ne varrebbe la pena, e Myles non si renderebbe conto della sua assenza.

Riporto quindi l'oggetto a letto, infilandolo con cura in una delle fodere dei cuscini. Proseguo quindi allontanandomi il più possibile dalla pediera, trasalendo quando la catena urta nuovamente la struttura di ferro del letto. Non sono in grado di estendermi più di tanto sulla sinistra causa la posizione in cui la catena è attaccata al metallo. Non posso avvicinarmi abbastanza per prendere nulla dal tavolino del trucco o da qualche altro mobile disposto su quel lato della stanza.

Tento invano di afferrare un piccolo apri lettere d'argento che individuo vicino alla brocca d'acqua. Mi allungo il più possibile, provando una fitta di dolore. Emetto un sommesso suono disperato quando le mie dita accarezzano il bordo del tavolo senza potersi spingersi oltre.

Provo un'improvvisa fitta di dolore e mi sento le gambe cedere. Crollo a terra, urtandomi senza pietà con il cemento del pavimento. Non trovo la forza di fermare le lacrime quando il dolore più intenso che abbia mai provato mi paralizza. Nemmeno i veloci passi che scendono le scale mi rendono razionale a sufficienza. Strillo sommessamente e mi acciambello premendo le braccia attorno al mio corpo ferito.

"Madre!" odo la voce agitata di lui nel momento in cui la pesante porta viene sbattuta contro al muro. "Stai bene? Cos'è successo?!"

Si affretta accanto a me, inginocchiandosi di fronte a me. Il mio respiro veloce amplifica semplicemente il dolore, ma non riesco a fermare l'iperventilazione che mi pervade i polmoni. La voce di Myles ripete le domande con ritmo frenetico, il che distoglie finalmente la mia attenzione dal fuoco divampante all'altezza delle mie costole. Mi si forma il sudore sulla fronte dallo stress a cui sono sottoposta.

"S—Stavo" mi obbligo a parlare prima che il dolore mi ammutolisca momentaneamente. "Cercando di prendere altra acqua" mento il più convincente possibile, considerata la mia agonia.

"Dovresti sapere di non muoverti quando sei ferita" mi ammonisce lui, le sue mani aleggiano sul mio addome sanguinante prima di fermarsi attorno alla mia schiena. "Ti porto a letto".

Mi ritraggo istintivamente al suo tocco, ma il mio disgusto viene immediatamente rimpiazzato dalla fitta di dolore quando lui mi solleva. Emetto altre grida di dolore che fanno eco nella stanza di cemento, ma mi si secca la gola, ed i lamenti mutano in proteste silenti.

Myles mi posa quindi nuovamente a terra, i suoi occhi azzurri agitati sono umidi di lacrime.

"Devi aiutarmi" lo imploro in un sussurro.

"Aspetta" ribatte lui, balzando in piedi ed affrettandosi verso la mensola bianca nello spigolo più buio della stanza mentre dai miei occhi cadono lacrime calde quando mi contorco dall'angoscia, i miei capelli neri si spargono sul pavimento di cemento coperto di polvere. "Questo ti aiuterà, Madre. Fidati".

Prima di rendermi conto del movimento dell'uomo dietro di me sento una fitta nell'avambraccio. Trasalisco quando i miei occhi cercano rapidamente la fonte della ferita, vedendo poi un ago che trova la mia vena.

"Aspetta, che cos—" prendo a protestare, ma porto subito gli occhi indietro quando sento un getto di liquido freddo nel braccio e verso la spalla.

Percepisco le guance contro al cemento, e faccio fatica a tenere gli occhi aperti quando la mia testa oscilla insensibile. Tutto sparisce in lontananza quando vengo sollevata da terra, il mio sguardo sconsolato è poi sulla porta aperta che rappresenterebbe la mia via di fuga se non fossi paralizzata.

Il restare cosciente diventa un concetto a me estraneo quando mi sento scivolare via dalla realtà. In un istante percepisco il vecchio materasso sotto di me, ma in quello dopo mi sento ritornare nel nulla. L'ultima immagine che registro sono delle mani coperte dal mio stesso sangue, prima di chiudere gli occhi per quella che sembra l'ultima volta quando cado nell'oscurità. 

Ballerina |ITA|Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora