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Taehyung

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Taehyung

I muri bianchi, freddi ed impersonali che tenevano in piedi le varie stanze degli ospedali non mi erano mai piaciuti. Li avevo sempre trovati così poco accoglienti e rendevano quell'edificio ancora più tetro di quanto non fosse già di suo. Pareti bianche e pulite ed io le comparavo ad un luogo tetro: sembrava un paradosso, eppure quello era ciò che mi avevano da sempre trasmesso gli ospedali. Forse era anche l'odore che impregnava quei posti a renderli così freddi. Il puzzo di disinfettante era la cosa più lontana che ci potesse essere al profumo di una casa, personale ed accogliente, caldo e rilassante. Ma adesso, col senno di poi, rimpiangevo quelle pareti bianche.

Non avrei mai pensato che disegni e colori sgargianti mi avrebbero potuto far provare una tristezza ancor più grande. Sapevo che quella parte di ospedale non era stata resa colorata per le persone che, come me, odiavano quel bianco che rendeva l'aria asettica e da brividi. Sapevo che quei disegni sulle pareti non dovevano far sorridere me perché non ero io quello destinato a popolare quei corridoi e quelle stanze. Ma, essere io quello con la camicia da notte addosso e disteso sul lettino scomodo dell'ospedale, mi avrebbe sicuramente fatto soffrire meno. Perché non c'era niente di più straziante dell'essere circondato da quei colori accesi che stavano lì solo per ricordarti che ti trovavi nel reparto pediatrico. Non c'era niente che poteva superare il dolore di vedere il proprio figlio lì dentro mentre, ignaro di tutto, ti diceva che voleva fare i muri della sua cameretta dello stesso colore ma che, magari, al posto della grande farfalla blu e viola che c'era lì, avrebbe preferito una tigre che ruggiva perché lui era un bambino coraggioso.

«Papà, perché piangi? Mi piace stare qui, ci sono tanti bambini con cui posso fare amicizia.»

E il mio cuore si spezzava perché avrei dovuto essere io quello coraggioso tra i due, invece era lui quello che mi consolava. Piano piano, comunque, avevo imparato a non piangere davanti a lui, a sorridergli e a distrarlo mentre gli facevano i prelievi o degli esami. Quando non mi vedeva, però, crollavo. Buttavo fuori tutta la tristezza e la rabbia che avevo represso.

Era passato un mese dal giorno in cui avevo deciso di portarlo al pronto soccorso ma, prima di arrivare lì, non avrei mai pensato che ci sarebbe rimasto per tutto questo tempo. Nell'ultimo periodo era sempre molto stanco e con il corpo pieno di lividi, tanto che ero arrivato anche a pensare che ci fossero dei bulletti a scuola che se la prendevano con lui. Gliel'avevo chiesto perché noi parlavamo di tutto e mi aveva rassicurato che non era così. Gli credevo, ma la presenza di tutte quelle ecchimosi che sfiguravano la sua pelle pallida non mi faceva dormire tranquillo. Quando a quelle si erano aggiunte anche frequenti epistassi, avevo iniziato a preoccuparmi. La cosa che, però, mi aveva fatto prendere la decisione di portarlo al pronto soccorso era stata la comparsa di una brutta febbre che, di lì a poco, mi avrebbero confermato essere sintomo di un'infezione.

Vederlo sofferente era una tortura per me. A sei anni un bambino non dovrebbe preoccuparsi della sua salute ma andare al parco e giocare con i suoi coetanei, tornare a casa dopo un giorno di scuola e raccontare tutto ciò che aveva imparato.

Sognatori in trappola ~ [Vkook&Sope]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora