Capitolo tredici

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La paura è un'emozione che spesso è accompagnata dal battito cardiaco accelerato.



 



 

Appena mi sveglio, un pensiero attraversa la mia mente: Louis non ha mantenuto la promessa.

Ed è con solo questo in testa che arrivo all'allenamento pre-partita della Domenica.

Sono qui fisicamente, mentre faccio il secondo giro di campo, ma la mia mente è ben distante.

Tra qualche ora ho una partita di campionato e l'unica cosa a cui riesco a pensare è che Niall non mi ha più scritto da quella sera. Sono passati tre giorni dalla loro partenza e in realtà sono spariti un po' tutti. Louis lo sento per forze di causa maggiore, ogni volta che può chiama Jess e attraverso i muri sottili che dividono le nostre stanze, riesco ad ascoltare le loro risate e il mio cuore, ogni volta, sobbalza. Ogni risata è una pugnalata a me, vorrei poter ridere anche io e invece ho passato tre giorni interi sotto le coperte, con il pc in mano a cercare foto su foto di Niall, del loro arrivo in America.

Una folata di vento mi fa rabbrividire e per qualche secondo torno alla realtà, vedo le altre ragazze della mia squadra iniziare a rientrare negli spogliatoi, sugli spalti c'è pochissima gente, in realtà già è tanto avere un piccolo campo in cui giocare.

Scuoto la testa e mi avvio verso la panchina, prendo una bottiglietta d'acqua e dopo essermi rinfrescata un po' il viso, mi siedo a terra. Sorrido tra me e me, ripensando al giorno in cui sono venuta con i ragazzi e ancora una volta lo stomaco fa brutti scherzi, sento una peso stringermi proprio al centro del petto, chiudo gli occhi stringendo i pugni sui fili d'erba del campo.

“Sere, tutto bene?” mi chiede Sally sedendosi accanto a me.

Annuisco senza però riaprire gli occhi, cerco di controllare l'impulso di vomitare e faccio qualche respiro profondo. Ridursi come uno straccio per un ragazzo. Mi ero ripromessa di non farlo e invece eccomi qua, come nei migliori film cinematografici, la ragazza mollata, si rovina la vita.

Il fischio del nostro allenatore mi riporta al mondo reale, mi alzo a fatica, evitando accuratamente lo sguardo della mia amica, non credo di poterle far sapere cosa mi sta succedendo.

In realtà, non voglio nemmeno dirglielo, non voglio sentirmi dire frasette di circostanza, tipo passerà, tranquilla o cose simili.

A me non frega niente se passerà, io voglio quel maledetto biondo finto, voglio il suo sorriso solo per me, le sue mani ad accarezzare le mie. Involontariamente sposto lo sguardo sugli spalti, ma so che lui non c'è. Così abbasso la testa, tiro qualche calcio all'aria per riscaldarmi ancora un po e sfilo la maglia giacca.

La maglia bianca e blu della mia squadra mi cade a pennello, il numero 14 dietro la schiena, il sudore dei miei sacrifici dentro le ossa, le speranze di un sogno dentro la pelle.

Scendo in campo con lo spirito di sempre, la voglia di vincere, di far bene, di sentire le persone sugli spalti urlare. Anche se il calcio femminile non è conosciuto tantissimo, le nostre partite non sono mai vuote, senza spettatori. Lego i capelli in una coda di cavallo e mi metto in posizione, guardo il capitano della mia squadra stringere la mano dell'avversaria, la monete dell'arbitro in aria, poi la scelta del capo per noi.

“Forza ragazze, dai... dai!” il nostro allenatore ci incita battendo rumorosamente le mani a bordo campo.

Il fischio dell'arbitro, poi l'inizio della corsa. Scatto istintivamente in avanti e i brividi, causati dal vento sulla pelle, non tardano ad arrivare. Le avversarie hanno la palla ma in pochi minuti riusciamo a riprenderla e tentare un'azione già nei primi minuti.

The Maid | Niall HoranDove le storie prendono vita. Scoprilo ora