Capitolo 27

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Clyde's pov

«Il soggetto sta uscendo di casa.» Chase parla alla radiolina collegata all'FBI. Siamo nel suo pick-up nero, pedinando il padre della mia ragazza. Sono già passate due settimane dal mio colloquio con Adam, ho dovuto per forza dire a Steven che l'ho fatto e che Adam mi ha detto di no, per cui ha pensato bene di mettermi a pedinarlo insieme a Chase.

Il mio migliore amico rimette a posto la radiolina, accende il motore e segue a debita distanza Adam, che è entrato in macchina e si sta dirigendo chissà dove. Non gli ho ancora detto di Paris, fino ad adesso non ce n'è mai stato bisogno e, infondo, sono terrorizzato dalla sua reazione. Rimaniamo in silenzio per un po', mentre io mi faccio prendere dal panico. Non voglio che finisca, non voglio essere scoperto. Ho pure messo degli occhiali da sole ed un cappellino da baseball per non essere riconosciuto. Come se bastasse questo, poi.

Ma sono anche terrorizzato di perdere il mio migliore amico per una ragazza. Se avessi fatto una bravata non mi avrebbe detto niente, quattro anni fa le facevamo continuamente insieme e quando non era così l'uno copriva l'altro, ma adesso è tutta un'altra storia. Adesso sto mandando a rotoli una missione dell'FBI, sto coprendo un criminale. Ma non rende un criminale anche me, questa cosa? Sto omettendo prove, mandando completamente a quel paese la missione. E alla fine, senza neanche un motivo valido. So che i Collins mi odieranno quando la verità verrà a galla.

«Puoi fermarti?» Sbotto, non spostando gli occhi dalla macchina di Adam. Siamo troppo vicini. È sbagliato sperare di perderlo tra le macchine, ma non posso farne a meno.

Chase non si ferma, né rallenta, ma mi lancia un'occhiata. «Va tutto bene? Oggi soffri di auto?» Vorrei urlare. Sento di star impazzendo e non capisco cosa diavolo devo fare. Sono in un bivio, non so se andare a destra o a sinistra, anche se so che entrambe le strade porteranno allo stesso risultato: Steven che mi licenzia o mi ammazza, Paris che mi odia, Chase che non mi rivolgerà più la parola. Vorrei essere ancora un bambino e svegliarmi nel pieno della notte dopo un incubo e infilarmi nel letto dei miei zii, con zia Abbie che mi stringe a sé e dice che è tutto okay. Adesso non è okay proprio niente della mia vita.

«No.» In realtà davvero ho la nausea, ma per un motivo diverso dall'auto. «Chase devo dirti una cosa che non ti piacerà.» La mia voce parla da sé, perché sono terrorizzato. Il mio migliore amico ha finalmente capito la gravità della situazione e rallenta, senza però fermarsi. Odio che prende così alla lettera gli ordini di Steven. Potremmo pedinarlo quando vogliamo, invece no, dobbiamo farlo proprio adesso che sto per rovinare la nostra amicizia.

«Mi stai spaventando, Clyde.» Mi lascia una pacca sulla spalla, quasi a dirmi di non avere paura, e poi mi sorride. «Qualunque cosa sia va tutto bene, non ti lascio da solo.»

Faccio fatica a respirare. Ho l'ansia, ho il peso dei segreti che mi porto addosso, la morte dei miei genitori ed un amore che non dovrei provare. «Io non sto fingendo.» Aspetto qualche secondo prima di continuare. «Non sto fingendo di essere innamorato di Paris, perché lo sono davvero, così come non sto fingendo di essere amico di William o che mi piaccia passare del tempo con la famiglia Collins. Sto mandando tutto a rotoli, Chase.»

Passa tanto tempo prima che lui mi risponda. «Clyde, è tutta una finzione.» Mi tremano le mani. So che ha ragione, che doveva esserlo, ma le cose sono cambiate. Non sono più quell'agente sicuro di sé del primo giorno che avrebbe fatto di tutto pur di arrestare Adam. Adesso sono solo una persona confusa, che si è persa e che non ha la più pallida idea di come ritrovare la strada giusta.

Ma il suo commento mi lascia anche infuriato. «Lei é una delle miglior cose che mi sia capitata.» Sbotto. «Non è finzione; quindi, da migliore amico, possiamo mentire a Steven e non seguire suo padre?» Quello che gli sto chiedendo è sbagliatissimo. Un conto è dirgli la verità e continuare a fare di testa mia, ed un altro conto è chiedergli di aiutarmi a non fare il nostro lavoro.

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