parte 11

18 5 9
                                        



Mi svegliai presto la mattina seguente, con un senso di riposo che non provavo da tempo. Scesi dal letto e andai giù in cucina a prepararmi la colazione.
Non appena arrivai giù cambiai idea. Ritornai su, andai in bagno a lavarmi e poi, nella cabina armadio per vestirmi. Successivamente uscii in fretta di casa. Presi il giornale dalla cassetta delle lettere e me lo portai con me in macchina. Avviai il motore, e mentre lo lasciai in moto, in modo che iniziasse a scaldare un po', lo sfogliai.
Quell'autunno stava diventando sempre più scolorito e freddo, e ormai da lì a poco si sarebbe presentato l'inverno. L'erba del mio giardino era ormai seccata. Le foglie arancioni e fragili che volteggiando cadevano a terra leggere e silenziose, avevano lasciato spazio a delle foglie marroni e agli alberi completamente spogli.
Richiusi il giornale e lo posai sul sedile passeggero, dicendomi che avrei interrotto il mio abbonamento. Leggerlo diventava sempre più noioso. Era diventato un passatempo, un modo per restare a contatto con il mondo. Che sciocchezza. Se c'è un modo per restare a contatto con esso, questo, è viverci, e io non lo stavo facendo. Ero io ad essermi escluso? O era il mondo a escludere me? Un'altra sciocchezza. Non poteva che essere colpa mia ovvio.
Senza darmi troppi tormenti, mi avviai verso il centro, e quando arrivai, andai al solito bar. Quello che, avevo escluso tutto dalla mia vita eccetto lui.

Terminai la mia colazione con calma, guardandomi intorno come un turista, anche se quel posto non poteva avere misteri ai miei occhi. Come al solito vidi persone passeggiare nonostante la fredda mattinata, bambini andare a scuola con gli zaini sulle spalle e qualche coppietta di anziani che ancora avevano l'aria di amarsi a dispetto degli anni trascorsi insieme.
Poi mi alzai, andai alla cassa a pagare la colazione per poi uscire dal bar e fare anch'io una passeggiata. Camminai fino a quando le gambe non iniziarono a chiedermi pietà. Infine ritornai alla macchina e andai verso casa.
Quando arrivai, mi tolsi il cappotto, lo lanciai sul divano e andai nel mio studio per iniziare a lavorare.

Scrissi per qualche ora, con qualche difficoltà. Avevo scelto una trama un po' difficile e non avevo nemmeno la più misera idea di come proseguire. Fortunatamente durante la scrittura quella difficoltà andava a diminuirsi, e gradualmente presi in pugno la storia. Iniziò a divertirmi quel caso del mozza teste e al contempo iniziavo ad affezionarmi a Joseph e a Isabella. Li immaginavo come una bella coppia, non più giovanissima ma che ancora non avevano figli. Vivevano insieme da dieci anni, ma il lavoro di Joseph in parte toglieva loro il desiderio di mettere su famiglia. Quello era uno dei motivi per cui lei voleva che Joseph cambiasse lavoro. Nonostante tutto, ci tenevo che fossero affiatati. Lei invece faceva la veterinaria, e aveva uno studio di sua proprietà. Aveva sempre lavorato nel settore, fin da giovanissima. Aveva iniziato a 19 anni, come stagista in uno studio di un vecchio conoscente di suo padre. Successivamente era stata assunta, e lavorò lì per cinque anni. Quelli che diedero a lei l'esperienza giusta per mettersi in proprio.
Amava quel lavoro, amava gli animali e le persone che a loro volta provavano amore per quelle magnifiche creature.

Mi piaceva. Davvero, più scrivevo e più mi appassionavo a loro, alla storia e persino al killer. Sì, perché lui era l'atto misterioso di quel libro. Era lui a dettare il gioco.
Mi fermai solamente quando iniziai a non sentirmi più il sedere e le gambe, per via della mia posizione, che durante quell'arco di tempo era rimasta invariata.
Mi alzai lentamente, tenendomi con le mani alla scrivania, per la paura di cadere. Quando iniziai a sentir scemare il formicolio che percorreva sulle mie gambe, mi appoggiai più saldamente sui miei piedi. Li battei un paio di volte e mi sentii subito più stabile.

Andai al frigo, lo aprii, presi una birra e mi accomodai sul divano. La aprii, feci una sorsata e la appoggiai al tavolo di fronte a me.
Non passò molto, che la mia testa andò giù e caddi in un sonno beato. Un sonno, che mi fece fare un sogno alquanto bizzarro.
Stavo per entrare dentro la villa di Carlo, era notte. Le poche luci che illuminavano il vasto giardino, mi fecero strada, accompagnandomi nel mio cammino verso l'entrata. Quando ero arrivato agli scalini, li avevo percorsi adagio, senza fretta. In quel momento una parte di me sapeva perfettamente il motivo della mia visita alla villa, l'altra invece, cancellava tutto quanto e mi lasciava l'amaro sapore del dubbio.
Nel momento in cui avevo aperto il massiccio portone in legno, (che come succede spesso nei sogni, era aperto) l'oscurità dell'interno aveva inghiottito anche quel poco di luce che era presente all'esterno. Per un'istante non avevo più visto nulla. Solo buio.
Quel sogno però ricominciò a mostrarmi le sue immagini, perché ad un certo punto tutto aveva ripreso forma in un amen. I quadri tornarono maestosi nella loro bellezza forse incompresa ai miei occhi, e il corridoio aveva preso ad assumere le forme che ricordavo. La tenda viola in fondo, svolazzava, come se ci fosse stata corrente tra il corridoio e il soggiorno. Invece l'aria era ferma. Statica. Immobile, come lo erano i quadri appesi sulle facciate dei muri. Tutto sommato, il volteggiare di quella tendina, non mi aveva intimorito. Nulla lì dentro mi intimoriva, nemmeno i quadri. Tant'è che per una volta era come non sentire quegli occhietti tenebrosi fissarmi. Quindi avevo proseguito imperterrito il mio cammino.

Eclissati Dall'ombraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora