parte 5

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Non feci più visita a Carlo e alla sua villa per circa tre settimane, così iniziai a trascorrere le mie giornate alla libreria o a scrivere. I lunedì, che erano i miei giorni liberi, li sfruttavo il più possibile. Uno di quei lunedì, scrissi così tanto da scordarmi anche di mangiare. Avevo scritto senza sosta, tant'è che fui obbligato a smettere a causa dei dolori alle tempie e un bruciore tremendo agli occhi. Sentivo i miei bulbi ardere come se fossero circondati da fiamme, senza calcolare le mie budella che rumoreggiavano a causa della fame.
Non è che avessi deciso di non andare più alla villa, ma semplicemente ero troppo preso dalla scrittura per poter dedicare tempo ad altre cose. Quelle due o tre settimane andarono così, e non fu una cosa dannosa. Ero arrivato a scrivere davvero tanto, e questo non poteva che darmi un'immensa soddisfazione. Avrei continuato così per altrettanto tempo o anche più, finché non lo avrei finito, ma un giorno i miei programmi cambiarono. Fu un caso o il destino, non lo so, ma accadde.

Ero appena uscito dalla porta della libreria, avevo salutato Davide, e mi ero incamminato verso casa. La giornata era nuvolosa, triste e cupa. A me non importava, ciò che per me contava era solo arrivare a casa il prima possibile, afferrare la mia penna e scrivere.
Avevo imboccato il Corso Giuseppe Garibaldi e casa mia distava ormai a pochi passi da lì. Ad un tratto mi fermai. Le mie gambe si erano ancorate fisse sul marciapiede, e il mio sguardo in direzione del lato opposto della strada. I miei occhi si erano adagiati sopra la sua schiena. Fu un'occhiata così intensa, che non seppi interrompere. Riconobbi i suoi capelli, la sua voce. Riuscii a sentire così limpide le sue parole, che mi sembrò di averla vicina, più di quanto avessi mai osato avvicinarmici. Era seduta a un tavolo di un bar e aveva ordinato al cameriere una spremuta d'arancia. Indossava un vestito blu, le arrivava fino a sotto le ginocchia. Ai piedi portava delle scarpe dello stesso colore del vestito. Avevano un tacco. Non alto, anzi, era piuttosto basso.
All'improvviso quella grigia e triste giornata diventò raggiante. Non certo sotto i raggi del sole, quel giorno non aveva proprio intenzione di mostrare la sua luce. La luce proveniva da lei, fu lei che fece splendere quella giornata.

Non avevo intenzione di farmi vedere, quindi sarei andato presto via. Se non per una forza maggiore, come una calamita che fece rimanere il mio sguardo fisso su di lei, come se stessi aspettando il momento in cui si sarebbe voltata. E lo fece. Il suo sguardo mi accarezzò l'anima, e mi fece sentire bene ma male allo stesso tempo.
«Ehi, tu sei Stefano giusto?»
Mi sentii morire dalla vergogna, e non fu soltanto a causa della mia timidezza, no. Lei era divina, indossava un vestito dal valore probabilmente superiore al mio stipendio mentre io indossavo i soliti stracci. E poi lei era bella. Era ben sopra i miei standard, visto che io non mi reputai mai un bel ragazzo. Probabilmente per via della scarsa considerazione che il sesso femminile mi dava o semplicemente la mia autostima viaggiava con me, ma appiccicata sulla suola delle scarpe.
Feci un respiro profondo, poi risposi.
«Sì, ricordi bene» mi fermai, respirai ancora una volta riempiendo i polmoni da quella fresca aria di pioggia imminente, mentre sentivo la mia fronte sudare freddo e continuai, «tu sei Beatrice giusto?» le domandai, ma in realtà il suo nome, la sua figura e la sua voce mi erano rimaste ben impresse nella mente.
«Sì, è il mio nome» la vidi sorridere. Un sorriso meraviglioso. Sentii qualcosa in quel momento. Il mio petto rimbombava per i battiti impazziti del cuore, per il troppo nervosismo o adrenalina che in quell'attimo scorreva dentro le mie vene. Poi vidi le sue labbra chiudersi, così da coprire i suoi denti bianchi come il latte. Dopodiché le sue labbra si schiusero e continuò. «Perché non vieni qui? Non ti mangio mica» Fece una specie di risatina ironica, poi mi fece cenno con il braccio, in segno di invito.
La guardai un attimo, risi anch'io, senza avere un motivo logico per farlo. Forse il troppo imbarazzo o il mio nervosismo agì al posto mio. Alla fine dissi «Dovrei andare a casa, ho delle faccende da sbrigare».
«E sono così importanti queste faccende da non poterti fermare qui con me, anche solo un attimo per fare due chiacchiere invece di gridare dall'altra parte della strada?» Rise ancora, la presi come una risata di sfida questa volta. Notai subito quanto fosse furba quella ragazza, tanto furba quanto irresistibile. Quindi non potei che arrendermi e accettare la sua sfida, così da dimostrarle che non me la sarei fatta addosso accanto a lei. Anche vestito di stracci e con le mie scarpe bucate, accettai la sua sfida.
«Stavo aspettando un'amica, probabilmente non verrà».
«Elisa? dissi, convinto che si trattava di lei e l'istinto non m'ingannò».
«Come lo sai?»
«L'ultima volta che ti ho vista, ovvero la seconda volta, avevi detto a tuo padre che avresti dovuto essere da Elisa ma alla fine...»
«Wow che memoria, me lo ero dimenticato perfino io» e rise. Questa volta rise divertita, gli occhi sorridevano assieme alle labbra, e quegli occhi diventarono sempre più belli man mano che lo faceva. In realtà se quella frase l'avesse detta una qualsiasi altra persona, non l'avrei mai tenuta a mente. Io sapevo bene di non avere buonissima memoria, se non per libri che leggevo o altre cose che catturavano appunto la mia attenzione.
«Allora, quali erano i tuoi impegni? Se sei qui con me... vuol dire che alla fine non erano chissà quanto importanti, tu che dici?» Quella ragazza mi parlava come se mi conoscesse da una vita, mi prendeva in giro come avrebbe fatto una vecchia amica. Non mi sembrò per niente imbarazzata quella volta.
«A dire il vero, starei scrivendo un libro per tuo padre, cioè, da mettere nella libreria degli scrittori anonimi».
«Ah già, a proposito di cattiva memoria. Non ti ho detto che alla villa non fanno altro che parlare di te. Stefano di qua, Stefano di là, bla bla bla... Sto iniziando anche a non sopportare più il tuo nome» tanto per cambiare rise di nuovo, poi continuò, «scherzo ovviamente» quindi risi anch'io, in modo meno entusiasta del suo. Mi chiedevo di cosa parlassero alla villa a proposito di me. Io però non lo sapevo, quindi era inutile esporre quelle domande a me stesso, perciò chiesi a lei.
«E che cosa dicono di me?»
«Mio padre ha fatto leggere le tue bozze ad Alberto. Sai già chi è?»
«Non ho ancora avuto il piacere di conoscerlo, ma Carlo me ne ha parlato» man mano che le parlavo, anche il mio imbarazzo cominciò a sparire.
«Lui è un tipo parecchio strano, se lo guardi non diresti mai che si intende di lettere, o che addirittura sia in grado di leggere un libro o tanto meno che ne scriva qualcuno. Pensa che lui è balbuziente, da piccola questa cosa mi faceva ridere e me ne vergogno. Ora penso che lui sia una persona davvero in gamba e, che chiunque possa imparare tante cose da lui» si fermò un attimo, forse per prendere fiato o per ricordare cos'altro avesse da dirmi, poi proseguì, «ora però torniamo a te. Come ti dicevo mio padre ha fatto leggere le tue bozze ad Alberto, io ero in salotto quel giorno, c'era anche Rosi seduta con me mentre sorseggiavamo del tè fresco. Alberto ha iniziato a balbettare mentre cercava di dire a mio padre che sei un predestinato e altre cose di questo tipo. Fatto sta, che persino Rosi volle leggere le tue bozze. Da quel giorno alla villa sei l'argomento del giorno» si fermò di nuovo, aveva iniziato a parlare in modo molto più serio, senza scherzare ma sorridendo ancora di tanto in tanto. Continuò dicendo. «Mio padre vorrebbe rivederti, ultimamente si chiedeva che fine avessi fatto. Alberto gli aveva detto, con i suoi tempi, che se avresti deciso di ascoltare la sua proposta di scrivere un libro, allora la tua assenza si spiegava. Diciamo che oggi abbiamo l'ufficialità che ci stai lavorando su».
Ero rimasto ad ascoltare con attenzione ogni sua singola parola, senza fiatare. Alla fine, non seppi che cosa risponderle. Ero contento che le mie bozze fossero piaciute, ma in realtà non ero sicuro se dare il libro a Carlo oppure se provare a pubblicarlo, non avevo ancora deciso nulla.

Dopo un lungo silenzio che aveva iniziato ad aleggiare intorno a noi dividendo le nostre anime, parlai.
«Mi spiace di non essere più passato alla villa, sono davvero troppo impegnato anche solo per dormire».
«Tranquillo, gli dirò che ti ho visto e che stai scrivendo il libro, lui capirà» si fermò, fece una faccia pensierosa, come se stesse cercando una soluzione a qualcosa. «Però se te lo chiedessi io di venire alla villa... riusciresti a ritagliare un po' del tuo tempo? Avrei una cosa da mostrarti».
Era vero che il mio tempo fosse diventato un tabù, ma quella era una proposta alla quale non potei rispondere in modo negativo.
Parlammo ancora un po', poi quando notai che stava iniziando a far buio più del solito, le proposi di accompagnarla fino alla villa. Lei declinò la mia offerta, rispondendomi che sarebbe presto arrivato l'autista di suo padre a prenderla, quindi fu lei a propormi un passaggio fino a casa. Declinai anch'io dicendole che casa mia distava non tanto da lì, quindi la salutai e andai verso casa, con la testa sommersa da pensieri e dubbi.
Se davvero avevo le doti di cui Carlo, Alberto e Rosi parlavano, allora pensai che non sarebbe stata una mossa ragionevole lasciare il mio libro nell'anonimato per l'eternità. Per quegli scrittori, scrivere e restare senza un'identità era normale. Loro erano contenti così, ma io lo sarei stato? Già, avrei potuto benissimo dare quel libro a Carlo e scriverne un altro per pubblicarlo se davvero ero così bravo come dicevano... ma anche lì, come sotto una forma di egoismo, una parte di me voleva essere riconosciuta per il lavoro svolto.
Infine, scacciai via tutti quei pensieri, dicendomi che non ero ancora a metà libro e quindi, il tempo sarebbe stato dalla mia parte, così da poter fare la scelta migliore.

Arrivai a casa, aprii il frigo, lo contemplai per un lungo istante e lo richiusi. Era completamente vuoto. Allora andai verso il mobiletto della cucina, accanto al lavabo. Alzai il braccio sinistro e lo aprii. Era rimasta una busta contenente ancora del pane, di cui non ricordavo nemmeno l'esistenza. La presi, la aprii e guardai dentro. Al suo interno vi era un pezzettino di pane tanto secco, che con questo avrei potuto frantumare una finestra. Lo presi ugualmente, lo guardai, controllai che non fosse ammuffito e lo portai sul tavolo. Presi un pentolino lo riempii con del latte che mi era rimasto dentro il frigo e lo scaldai. Quando il latte divenne un po' caldo, presi un tagliere lo appoggiai al tavolo e sopra di esso il pentolino con il latte. Mangiai il pane inzuppandolo dentro. Vi risparmio il sapore che percepii masticando quella roba, ma non avevo altro, perciò era meglio che sentire il mio stomaco fare baccano.
Era un periodaccio, il mio stipendio bastava giusto per pagare l'affitto, qualche bolletta e con il rimanente, comprare qualcosa da mangiare.
"Dovrei chiedere un piccolo aumento" pensai, mentre continuavo a inzuppare quel pane secco nel latte. Giusto da potermi permettere due pasti al giorno.

Quando finii di mangiare, mi alzai, andai con il pentolino verso il lavabo e lo appoggiai all'interno. Poi spensi la luce. Andai in camera accendendo la luce prima di chiudere la porta alle mie spalle. Da quel momento ogni brutto pensiero scomparve, abbandonai il mondo circostante, lasciandomi accudire dalla magia della narrazione. Il mio personaggio, poco a poco, divenne più definito. Iniziava a imboccare la via verso la verità, che la propria esistenza gli aveva negato. Ancora non avevo un'idea precisa in mente. Solitamente scrivevo senza un obbiettivo, quindi ciò che facevo, appariva sotto forma misteriosa anche davanti ai miei occhi. Era il modo di scrivere che più preferivo, l'unico che mi permetteva di farlo.
Inizialmente, qualche anno prima, avevo provato a scrivere con un progetto ben preciso e il risultato era stata la scoperta di questa mia tecnica.
Scrissi una decina di pagine quella sera, ma ne appallottolai almeno il doppio prima che raggiungessi quel risultato.

Eclissati Dall'ombraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora