parte 3

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Arrivai a casa venti minuti dopo circa, e solo allora sfogai la mia tristezza in un pianto liberatorio. Finalmente ero solo, libero di esternare le mie sensazioni senza sentirmi addosso gli occhi impietositi di qualcuno. Non so se la mia fosse vergogna, ma per me era importante potermi sfogare da solo, quando nessuno guardava e nessuno poteva dirmi "dai va tutto bene". Perché non andava bene per niente, e questo lo sapevo soltanto io.
In quel momento mi dissi che avrei dovuto uccidere il suo sorriso, quello che aveva dedicato a quell'uomo, come non troppo tempo prima dedicava soltanto a me. Conoscevo soltanto un modo per farlo. Mi sentivo di nuovo pronto, prima però, avrei fatto un'altra cosa.
Andai verso la scrivania, mi sedetti sulla mia confortevole poltrona e aprii il cassettino dove tenevo l'agenda. Oltre al mio blocco delle annotazioni dei miei impegni, tenevo in quel cassetto un mucchio di fogli. Bozze contenenti parole scritte come sfogo o pura ispirazione, ma poi lasciate lì, come dimenticate in quel triste cassetto, pieno ma vuoto allo stesso tempo.
Rovistai tra tutti quei fogli finché non trovai quello che avevo preso a cercare. La sollevai, permettendo alla luce che penetrava dalla finestra di illuminarla, mettendo in evidenza i dettagli di quella foto in bianco e nero. Era la foto di Beatrice che sedeva sulle ginocchia di Giovanna mentre disegnava. La guardai per un'istante con l'istinto che mi punzecchiava da dietro la schiena, dicendomi di darle fuoco. "Brucia tutto quello che potrebbe farti tornare alla memoria Beatrice!" Mi sussurrava con voce roca, all'orecchio.
Io fui determinato a dare ascolto a quella voce. Quindi presi i fiammiferi e accesi la testa di uno di questi. Avvicinai la fiamma all'angolo basso sinistro, mentre con la mano destra, reggevo la foto tremando per il nervosismo. Quando l'angolo prese fuoco spostai la fiamma, pentendomi subito di quel gesto, ma esitai a spegnere la lingua ardente che ormai aveva preso a salire per la foto.
Mi ero bloccato, avevo i riflessi e i pensieri paralizzati. Poi però riuscii a reagire, quindi soffiai liberando tutta l'aria che avevo nei polmoni. La vampata si spense lasciando un contorno nero al confine tra il vuoto che si era formato e quello che ancora era rimasto dopo la fiamma, dal quale iniziarono a partire volute di fumo e puzza di carta bruciata.
Con sollievo, constatai che il fuoco aveva mangiato soltanto quell'angolo della foto, senza sfiorare le due persone ritratte in essa. Beatrice era ancora lì, ancora insieme a me e io fui felice di vederla. La posai sul mio petto mentre chiudevo gli occhi, per sprofondare infine con la schiena sulla morbida pelle della poltrona.

Quando riaprii gli occhi mi sentii come se avessi dormito. Avevo anche sognato.
Avevo visto la villa. Ero nell'enorme giardino, da solo, mentre aspettavo qualcuno. Non sapevo chi sarebbe uscito dall'ingresso principale di essa, ma io ero lì, sulla panchina in pietra mentre mi agitavo nell'attesa.
Poi il grande uscio si era aperto. Piano piano iniziavo a vedere la persona che da dentro, stava aprendo quel portone. Era lei. Con i capelli che svolazzavano spinti dal vento, mentre mi sorrideva dolcemente. Si era avvicinata lentamente a me, mi aveva guardato, mentre il suo sorriso cresceva sempre di più. Poi parlò. Mi disse che non dovevo preoccuparmi, perché in cuor suo mi aveva già perdonato. Io mi ero alzato in piedi, pronto per avvolgere le mie braccia intorno al suo corpo e dirle quanto mi era mancata. Quando lo avevo fatto, non avevo sentito nulla. Era come se avessi appoggiato le mie braccia intorno all'aria che in quel momento sentivo gelida, fredda come aria invernale.

Fu tiepida la scia umida e salata che si formò sul mio viso. I miei occhi avevano ripreso a lacrimare, mentre mi sentivo il senso di colpa che mi mangiava dentro il petto. Era così lontano il ricordo di un suo abbraccio, della sua voce e della sua compagnia nella mia vita, che mai come allora, mi sentii abbandonato in quel mondo triste. 
Dopo che mi asciugai le lacrime, presi un foglio bianco e lo infilai dentro la macchina per scrivere. La foto, l'avevo appoggiata alla mia destra, dove il giorno prima, c'erano la bottiglia di Whisky e il bicchierino.
Ero davvero pronto, quindi cominciai.

Iniziai a scrivere la prima parola, che fu seguita subito da una seconda poi da una terza, una quarta si allineava alle altre e con quel ritmo le parole si moltiplicarono, come i vagoni di un treno visto dall'alto mentre fuoriesce da una galleria. Avevo ritrovato il sapore delle parole, avevo ricominciato a mettere sentimento nel testo, quindi a scrivere incidendo la mia anima sopra quel foglio bianco.
Il mio obbiettivo era uno soltanto. Scrivere un libro diverso dagli altri, qualcosa di nuovo. Qualcosa che non avrei mai pensato di fare. Avevo in mente l'idea di creare la nostra storia, la mia e quella di Bea, insieme. Io lei e la villa. Magari avrei messo anche la città degli scrittori anonimi all'interno di quella storia. Quello che mi importava però, era che ci fossimo stati noi due al centro di quella trama. Tutto questo, per sentirla ancora con me, per non sentire più quella solitudine che tanto mi faceva male.
Andai avanti così, non per qualche ora ma per giorni. Il libro procedeva bene, l'ispirazione di scrivere era tornata e ormai non riuscivo più a farne a meno.
Avevo iniziato a fare colazione in casa, più in fretta possibile, dopodiché mi concedevo dieci minuti e partivo con la scrittura. Spesso andavo avanti fino all'una per poi fermarmi così da fare uno spuntino, ripartendo subito dopo. Altre volte non mi fermavo proprio, dimenticandomi di guardarmi intorno, scordandomi di controllare l'orologio e finendo per ignorare l'esistenza di un mondo reale.

Eclissati Dall'ombraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora