Il giorno dopo, mi svegliai per andare a lavorare. Dopo il lavoro, avevo appuntamento con Beatrice, quindi indossai i vestiti meno orribili che possedevo. Misi un paio di blue jeans e una t-shirt nera. Per le scarpe non potei scegliere, ne avevo solamente un paio.
Quella giornata di lavoro, fu la più lunga della mia vita. Davide mi sorprese più di una volta a guardare l'orologio di legno che stava sopra la porta dell'entrata, tuttavia non mi disse niente per fortuna. A dire il vero, non era soltanto la voglia di vederla, ma il fatto che lei avesse fatto tutto quel mistero su ciò che mi avrebbe voluto mostrare. Se dovessi fare un elenco dei miei difetti, io metterei per primo la curiosità. Anche se non è un difetto vero proprio, anzi, è la curiosità ad aver portato l'uomo sulla luna. La mia però, lo era. Un giorno mi avrebbe portato anche su una stella ma solo per farmi prendere il volo da un posto più alto, così da potermi infine schiantare di faccia sulla terra.
L'ultima ora fu la più lunga in assoluto. Pensai che quei sessanta minuti non sarebbero mai passati, che poi furono cinquantotto, cinquantasette e cinquantasei ma i secondi sembravano a rilento, come il tono di voce di chi aveva alzato troppo il gomito. Poi l'atteso momento arrivò. Uscii alla solita ora di sempre, alle 18:30.
Davide usciva sempre un'ora dopo di me. Ritirava le ultime cose, riguardava il registro degli ordini e delle vendite e contava l'incasso giornaliero.Lei era già fuori che mi aspettava. Anche lei indossava un paio di blue jeans e aveva una t-shirt bianca. I lunghi capelli erano legati in una coda di cavallo, che si adagiava dolcemente su una spalla. La sinistra. Mi guardò mentre uscivo, aveva il suo solito sorriso dolce che, come una luna crescente decorava il suo bel viso. Pensavo che mi avrebbe aspettato in macchina, ma a quanto mi parve di capire, l'autista l'aveva solo accompagnata. Una cosa mi fu chiara. Avremmo camminato l'uno accanto all'altra per le vie della città, che ci avrebbero accompagnati alla villa.
«Non sapevo che lavorassi in una libreria, me lo ha detto Riccardo. Ovviamente lui lo sapeva grazie a mio padre».
Non ci avevo pensato. La seconda volta che vidi suo padre, non mi venne nemmeno il ben che minimo dubbio. La mia mente tornò a quel giorno, quando uscii dal lavoro e vidi fuori dalla libreria la Jaguar bianca di Carlo. Poi pensai al fatto che, essendo un uomo molto potente, come dimostrava di essere, poteva permettersi di sapere tutto su tutti.
«A dire la verità, non ricordo di avergli detto della libreria» risposi mentre ci meditavo su.
«Spesso mi rendo conto che mio padre sa davvero troppe cose, alle volte si tratta di conoscenze davvero assurde. Lui è un maniaco dell'informazione. Si tiene informato su fatti accaduti nel mondo, su cose di questo tipo. Sinceramente non ho mai capito a cosa gli servisse sapere certe cose...» fece una pausa mentre emise un verso che suonava come un mmmm, di chi si accinge a pensare. «Comunque sia, diciamo che cerco di stare alla larga da quello che fa lui, non lo so perché ma non mi voglio immischiare nei suoi affari».
«E la città?» gli chiesi.
«Quale città?»
«La città degli scrittori anonimi, lui mi ha detto che la chiama cosi».
«Aaaaaaaah sì» rise, poi continuò «era lì che ti volevo portare, scommetto che non ti ha fatto vedere un posto che io penso sia meraviglioso».Parlammo durante tutto il tragitto, soprattutto lei. Notai dal giorno prima che Beatrice fosse una gran chiacchierona. Lei parlava, parlava e ancora parlava imperterrita. Io non ero mai stato uno che dava tanta aria alla bocca, anzi, il silenzio per me era cosa preziosa. Io comunicavo con me stesso mentalmente, attraverso i pensieri. Infine molti di questi, li trasmettevo sui fogli di carta, con inchiostro, così da non scordarmeli. Nonostante io non amassi tanto l'arte della parola, non potevo fare altro che starla ad ascoltare. Lei mi piaceva e piano piano, scoprivo che anche parlarle mi piaceva molto.
Quando arrivammo mi disse «Che ne dici di una brioche?»
Avevo una fame da lupi, e non appena sentii la parola brioche, percepii l'ululato del mio stomaco.
«Piu in là c'è il panettiere, fa delle brioches buonissime e ogni volta che mi vede qua me ne regala una, non accetta soldi da me. Sarà perché sono la figlia di Carlo». Sorrise, quando mi prese la mano e mi trascinò verso il negozietto fatto in legno che era la panetteria. Sopra, l'insegna recitava "Dalle fauci del forno". Un nome molto simpatico, pensai.
Entrammo e salutammo il panettiere, che si presentò come un allegro omone con un grembiule bianco. Aveva una faccia solare, i suoi occhi erano neri, come oscurati nel buio. I suoi capelli, altrettanto neri. Appena ci vide iniziò subito a scherzare con noi, a parlarci facendo conoscenza con me, dandomi il benvenuto in città. Il suo nome era Giuseppe, mi disse che in città lo chiamavano semplicemente il "panettiere" anche se tutti conoscevano il suo nome nativo. Ci regalò due brioche grandi, come meloni. Da dentro, afferrandola, fuoriusciva il cioccolato ancora caldo, mentre scendeva denso come lava da un vulcano in eruzione.
Assaggiai un pezzo, poi me la divorai in un attimo, sporcandomi di cioccolata le dita e la bocca. Quando mi ripresi dallo stato di trans, creatosi dalla dolce sensazione di quello che mangiai, mi resi conto che il panettiere e Beatrice mi guardavano con aria sbigottita.
«Avevi fame ragazzo!» fece un grande sorriso poi mi chiese se ne volessi un'altra.
Non potei che accettare. La seconda la mangiai con più calma, con la convinzione che nessuno mi avrebbe rubato il cibo dalle mani.
Gli feci i complimenti, erano squisite. Poi lo salutammo, lui ci disse di tornare presto in città, e noi gli rispondemmo che lo avremo fatto senz'altro.

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Eclissati Dall'ombra
Mystery / Thriller"Quello, era un lunedì come tanti altri appunto, tra un bicchierino di Whisky per combattere contro i mali della vita e il fumo di una sigaretta per ucciderla lentamente..." Come vedete il SUCCESSO? Qual è la forma o quali sono i colori, i valori e...