parte 6

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Uscii dalla casa, cautamente, guardandomi a destra e a sinistra prima di superare la soglia della porta. Una volta arrivato nella viuzza di ghiaia, mi misi in marcia, andando verso l'uscita della città, là dove avevo lasciato Beatrice ad aspettare. "Una vera fortuna non averla portata con me" pensai, mentre dentro di me stava iniziando a crescere l'ansia. Una cosa molto curiosa che non seppi spiegarmi, fu che lo choc di aver visto un morto arrivò dopo averlo abbandonato nella sua solitudine in quella casa.
Quando arrivai da lei, guardandola, capii che la mia non era soltanto ansia interna e quindi nascosta. Quando mi vide, la sua espressione diventò quella di chi aveva visto qualcosa di brutto. Sembrava che quel cadavere lo avesse visto lei, per intenderci. Poi la sua voce mi raggiunse ancor prima che io raggiungessi lei.
«Stefano, ti senti bene? Sei pallido».
"Ecco sapevo che me lo avresti detto" pensai. «Davvero?»
«Sì sembra che tu abbia visto un fantasma».
«Non sei così distante dalla realtà». Ero ormai vicino a lei quando glielo dissi.
«Cosa? Ti spiace mica essere più chiaro?»
«Bea, sono contento che tu sia rimasta qua ad aspettarmi, credimi è stata la cosa migliore per te. Ecco... quello che cercavo di dirti, è che ho trovato quell'uomo senza vita... quando sono arrivato a casa sua, l'ho trovato impiccato».
Lei non rispose, aprì la bocca per poi ricoprirla con le mani, come chi riceve una brutta notizia su un proprio parente da parte del medico che prima aveva tentato di salvargli la vita. Ma come avrebbe fatto uno stretto parente di un paziente deceduto, lei invece non pianse. Si limitò solamente a rimanere ammutolita, con entrambe le mani a impedirne la fuoriuscita di qualsiasi suono e con gli occhi sgranati.
Io, comprendendo il suo choc, la abbracciai e le dissi «Stai tranquilla, va tutto bene... ora però dobbiamo avvertire qualcuno».
Lei sembrò tranquillizzarsi, respirò una volta a pieni polmoni e poi parlò a sua volta.
«Dobbiamo dirlo a mio padre».
«Credo che questa sia la soluzione migliore, anche se...»
«Cosa?» mi domandò lei frettolosamente.
«Avevo detto a tuo padre che sarei stato lontano da questa storia, cioè da questo scrittore e io non l'ho fatto».
«Sì ma è un problema meno grosso messo in confronto con la morte di una persona».
«Hai ragione».

Andammo subito verso la villa, dopo aver messo la parola fine a quel discorso. Camminammo con passo svelto, senza dirci nulla durante il tragitto, senza addirittura scambiarci uno sguardo. Eravamo entrambi spaventati e volevamo risolvere il prima possibile quella faccenda. Finimmo così per metterci a correre. Quando arrivammo nei pressi della villa, Rosi che era presa da annaffiare le piante nel giardino, ci sorprese correre come due disperati. Io notai il suo sguardo preoccupato quando ci vide, ma noi non ci fermammo a dare spiegazioni, anzi. Tagliammo dritto, andando verso i gradini. Li salimmo velocemente fino a quando arrivammo ai piedi del portone, che poi aprimmo subito, così da entrare dentro alla svelta. Corremmo ancora lungo tutto il corridoio, fino a quando superammo la tenda, imbattendoci in un Carlo dall'aria perplessa. Aveva la faccia di chi pensa, "che diavolo state facendo?" E scommetto che lo avesse pensato sul serio.  
«Cosa sta succedendo?» ci domandò senza attendere troppo.
Parlai io. Ero io ad aver assistito alla scena e toccava a me raccontarla. Lui mi ascoltò con attenzione. Quando comprese di chi stavo parlando la sua faccia indossò un'espressione severa, nella quale io lessi: "te lo avevo detto di stare lontano da questa storia, perché non mi hai dato retta?" Lui però non parlò, mi lasciò finire, senza fiatare ma limitandosi soltanto a guardarmi con severità negli occhi. Mi ricordò il mio padre adottivo quando mi riprendeva, dopo che avevo fatto un casinacciolo, era un modo di dire tutto suo per non dire una parolaccia. Lui ogni volta che doveva dire una parolaccia, scagliava una delle sue paroline inventate in fin di bene, perché lui era un buono, una buona persona. Avrebbe potuto dire un casino ma a lui piaceva dire casinacciolo. Carlo mi sembrò in quel momento, il suo perfetto riflesso, come nemmeno uno specchio sarebbe riuscito a fare.

Quando finii di parlare lui non cambiò modo di guardarmi, e mi disse. «Non tocca a me rimproverarti ragazzo, ma qualcuno doveva pur trovarlo. Avrei preferito che non fossi stato tu quello... mi dispiace. Tu stai bene?»
Mi sentii sollevato. Per un attimo avevo temuto una bella strigliata.
«Sì...io sto bene».
«Per quale motivo hai deciso di accettare l'invito di un pazzo a casa sua?»
«Ecco...non lo so». Lo sapevo eccome invece, io avevo sete di sapere. Volevo sapere la verità su quei libri, ma questo non glielo dissi. Decisi di tenermelo ancora per me, sapendo che quella sete mi avrebbe portato di nuovo in quella casa.
«Te lo avevo detto che aveva dei problemi seri, infatti si è tolto la vita».
«Secondo me non è andata così» sentenziai.
«E come sarebbe andata?»
«Quell'uomo è stato ucciso».
Fu in quel momento che sentii le mie guance bagnarsi da un rivolo salato di lacrime, non compresi a fondo quelle lacrime, ma penso fossero dovute alla situazione. Spesso le persone dopo un accaduto tragico, piangono con un netto ritardo. Penso che sia dovuto alla forza che uno crede di avere, trattenendo così la propria sofferenza fino a scoppiare. Ecco, a me, in quel momento era successo esattamente così.
Mi pulii nervosamente la faccia con entrambi i dorsi delle mani, mentre Carlo mi rispose «Non è possibile, non ci sono criminali in quella città».
«Ma ci sono pazzi. Mi vuole spiegare che cos'ha di diverso un criminale da un pazzo?»
Lui rimase ammutolito dalla mia risposta, la sua bocca si era fermata, aperta come per dire dell'altro ma nessuna parola fuoriuscì da essa.
«Allora?» insistei alzando poco poco la voce.
Lui se ne accorse, e il suo volto diventò quasi rabbioso e alla fine rispose.
«Non credo ce ne siano ma questa cosa è fuori discussione. Sarà l'autopsia a spiegarci qualcosa e magari la polizia, non certo tu. In questa città non ci sono criminali, Stefano».

Non dissi più nulla, tacqui, notando che Carlo fosse già parecchio irritato. Beatrice era rimasta in silenzio per tutto il tempo, e altrettanto stava facendo in quel momento. Poi il silenzio venne interrotto, dopo non tanto, ma massimo una manciata di secondi.
«Sai che ti dico? Appena ne saprò di più sarai il primo a ricevere notizie, così potrai tranquillizzarti» concluse. Io mi limitai ad annuire facendo cenno con la testa, dopodiché vidi Carlo alzare la cornetta, digitare un numero e attendere. Dall'altro capo si sentì il suono di una voce, anche se non compresi le parole pronunciate. Avevo sentito però quello che aveva detto Carlo. Parlò della scoperta del cadavere, e chiese subito che gli fosse mandato qualcuno alla villa.
Quando posò il telefono, lo salutai e andai via. Quando uscii fuori, mi stavo ormai allontanando nella direzione del cancello, quando sentii la voce di Beatrice.
«Aspetta».
Mi voltai, vedendola correre verso di me con le braccia aperte che andavano avanti e indietro, come per tenersi in equilibrio. Quando arrivò davanti a me, aveva il fiatone. Sulla fronte asciutta, iniziarono a fuoriuscire dai pori le prime minuscole goccioline di sudore. Mentre respirava affannosamente, mi disse. «Non te la prendere, lui cerca di difendere la creazione della sua famiglia. Forse hai ragione tu, le mele marce esistono ovunque, ma lui questo non lo vuole accettare».
«Forse ho ragione io?» dissi in modo ironico, «io sono stato lì dentro, io ho visto la scena e ti posso assicurare che quell'uomo non si è suicidato» le dissi gridando con rabbia. Ero così collerico, da non riuscire a trattenere la mia rabbia neppure con Beatrice, che aveva accusato il colpo. Dopo quella mia risposta, vidi il suo volto incupirsi. Lei era corsa da me per tranquillizzarmi e io non avevo fatto altro che sfogare la mia rabbia su di lei. Sul suo viso, scesero lacrime dal sapore amaro per me. Mi sentii immediatamente colpevole, senza poter rimediare al mio sbaglio. Allungai la mano verso di lei come per chiederle perdono, ma la vidi voltarsi e andare verso la villa a passo lento, mentre ogni tanto alzava le braccia per portare le sue mani verso il proprio volto per asciugarsi le lacrime.

***

Qualche settimana dopo quell'evento, mentre controllai la cassetta della posta, trovai diverse lettere, tra le quali una da parte di Carlo.
Prima di quel giorno, dovetti testimoniare quello che avevo visto. Ebbi anche qualche problema per aver inquinato le prove, perciò fui interrogato più volte.

Caro Stefano.

Ti scrivo per informarti come avevo promesso, dei risultati dell'autopsia di Roberto.
Ti auguro una buona giornata. A presto.

                                                      Saluti Carlo.

Dentro a quella busta, oltre alla lettera di Carlo c'era un foglio. Un documento medico per l'esattezza. Come prima cosa notai i dati anagrafici dell'uomo, che era stato identificato come Roberto Esposito. 56 anni. Nato a Ivrea. Sotto i dati anagrafici c'erano i risultati dell'autopsia. Che spiegavano di come l'uomo fosse morto per asfissia, sottolineando così la sua morte per via dell'impiccagione. Escludeva inoltre, altre contusioni sul suo corpo oltre al solco che aveva intorno al collo, che era stato creato dalla corda che lo avvolgeva.
Quella era la prova che le mie teorie fossero errate, mi ero sbagliato, avevo sparato senza preoccuparmi del calibro di quei proiettili. Quel documento medico mi fece cadere in uno stato di tristezza indescrivibile, sia per essermi rivolto con maleducazione nei confronti di Carlo ma soprattutto per aver ferito i sentimenti di Beatrice. Per cosa? Un piccolo sospetto? Mi domandai. Continuando con: "ma come avrebbe fatto Roberto ad appendersi a quella corda?" L'autopsia non dà alcuna spiegazione a questo fattore. La mia risposta fu che probabilmente aveva messo i piedi sopra lo schienale della sedia, quello in parte spiegava il fatto che di conseguenza questa fosse caduta all'indietro.
"Eccolo il mio piccolo sospetto", pensai, mentre il senso di colpa mi divorava dall'interno.

Eclissati Dall'ombraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora