49. Come si uccidono le idee

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Si sentiva come se stesse emergendo da una vasca di latte caldo, che le avesse ripulito il corpo e i pensieri a fondo con il suo tepore. Nell'aria c'era un buon profumo... arancia e cioccolato, una torta fatta con amore.

"Chi? Chi l'ha fatta?"

No, non era il momento. Doveva ricordare qualcosa. Era successo qualcosa d'importante... o doveva succedere?

«È già successo» Le ricordò il corvo, richiudendo le ali. L'uccello si posò sul suo braccio silenzioso come un sospiro, con grazia. Non ricordava di aver teso il braccio per accoglierlo, ma le parve la cosa più naturale del mondo.

La ragazza si ergeva nella neve, una figuretta scura che si stagliava sul bianco impossibile del panorama gelido. A pochi passi da lei c'era un albero dalla corteccia nera, sopra cui gocce di umidità si erano rannicchiate come bambini contro il petto della madre; l'inverno l'aveva denudato di tutte le sue foglie, eppure lei lo trovò bello, fiero. Cherry indossava vestiti caldi, comodi nonostante il sangue che le impregnava il colletto e le spalle, ancora impossibilmente fresco.

«Cos'è successo?» Sussurrò verso l'uccello

«Non ricordi?» il corvo inclinò piano il capino

«No... no, non me lo ricordo» Cherry aggrottò le sopracciglia, cercando di ripescare i ricordi che le servivano. Le sembrava molto importante ricordare questa cosa, ma non ci riusciva. Il piccolo volto di Alina Vogt aleggiò per un secondo nei suoi pensieri, ma venne portato via come semi di soffione dalla brezza. No, non era quel tipo di confusione.

"Devo ricordare".

«Non fa niente» Cercò di consolarla l'uccello, stringendo la presa sul suo braccio. Il tessuto si raggrinzì, ma lei non avvertì alcun fastidio. «Lui deve rimanere addormentato, ma tu ti sveglierai tra poco. Noi siamo amiche, vero Cherry?» Le chiese, e la sua voce le arrivò come quella di due ragazze diverse: Maris e Ariana.

Ariana.

Un bolide piumato attraversò il cielo dirigendosi ad artigli tesi verso il corvo. L'uccello nero si spostò appena in tempo, ma l'altro animale si gettò nuovamente all'inseguimento. Un astore.

Ariana, che era morta nell'esplosione che aveva tolto la vita quasi a tutti coloro che erano stati dentro l'ospedale Drago Bianco. Ma Bloodhound non era morto.

Il cielo, che era stato bianco come cotone pulito, iniziò a scurirsi: nuvole e corvi, centinaia di uccelli neri come inchiostro che si sovrapponevano, giostravano e si agitavano in lontananza come una grande ombra vivente. Sentiva la pace che aveva provato incrinarsi; l'odore di cioccolato si inasprì, divenne pungente: aroma d'ozono.

Bloodhound era venuto per loro, lei e Valder. No, in fondo, cosa le aveva fatto Valder? Era stata lei a legarlo, picchiarlo e farlo spogliare. Era venuto per lei. Era possibile sfuggire a qualcuno che l'avrebbe potuta fiutare in qualunque momento come un vero cane da pista di sangue, setacciando i pensieri di chiunque l'avesse vista, incontrata, pensata? Perché cercarla adesso, poi? Doveva essere sopravvissuto in qualche maniera all'esplosione, ed era venuto a finire il lavoro quando aveva scoperto che anche Cherry era ancora viva. Ricordava che aveva estratto qualcosa da sotto la giacca: snella e letale, dalla canna affusolata. Una pistola?

«Ci vediamo presto, Cherry» Disse il corvo con la voce di Ariana, e affondò gli artigli nel petto dell'astore, un secondo prima che il resto dello stormo si avventasse contro il rapace per darle manforte. Udì il rumore di uno sparo, e tutto divenne buio.

Cherry si svegliò di soprassalto, registrando per prima cosa il proprio respiro affannato nella stanza poco illuminata.

C'era un'apertura minuscola, stretta come una lama, sopra l'unica porta e da lì veniva un chiarore giallastro che disegnava i contorni delle cose. Cherry voltò la testa, gli occhi spalancati, e vide Valder che dormiva con la bocca aperta, la testa reclinata all'indietro, seduto su una robusta sedia metallica a cui era stato legato con corde spesse.

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