Capitolo 44

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Sudavo freddo. Tremavo. Ero pallida come un cadavere. Chiunque mi avesse vista avrebbe pensato che ero una moribonda. Ed invece no. Stavo solo per parlare con Harry. Mai il pensiero di dover parlare con lui mi aveva spaventata tanto. Mai avevo desiderato di non doverlo fare.

Anche solo avvicinarmi a lui mi spaventava. Avevo paura del modo in cui mi avrebbe guardata. Avevo paura che sarebbe stato diverso. Avevo paura non sarebbe stato lo sguardo che tutti vedevano che rivolgeva solo a me.

Dopo aver parlato con mia madre mi sentivo decisamente meglio di quella mattina. Sicuramente meno colpevole. Ma nel momento in cui avevo visto Chantal uscire di casa con Jake per andare ad incontrare delle sue vecchie amiche la nausea e il bisogno impellente di piangere erano tornati. Ero rimasta quindi venti minuti immobile sul divanetto del portico a cercare di trovare il coraggio per andare a parlare con Harry. Una volta capito che il coraggio non l'avrei mai trovato mi ero costretta ad alzarmi. Altri cinque minuti mi ci erano poi voluti per entrare in casa. Una volta entrata mi ero trascinata su per le scale nonostante sentissi di poter svenire da un momento all'altro. Mi fermai davanti alla porta della camera di mia sorella dove sapevo esserci Harry e mi sentii il battito del cuore rimbombare rumorosamente nelle orecchie per quanto era forte.

Provai ad abbassare la maniglia una prima volta ma non riuscii neppure ad avvicinarmi abbastanza da toccarla. La seconda volta la toccai, ma appena sentii il metallo freddo sotto le dita ritrassi la mano spaventata. La terza mi afferrai con la mano sinistra il polso della destra e la spinsi a stringere la maniglia ed abbassarla.

Ormai non potevo tornare indietro. Lui aveva sicuramente sentito il rumore della porta che si apriva e quindi era arrivato il momento di farlo.

Entrai ad occhi chiusi. Ero una fifona. Mi piaceva far finta di essere forte ma, in fin dei conti, ero solo una ragazzina innamorata e per niente forte come voleva far credere.

Riaprii gli occhi solo dopo qualche secondo che ero ferma sulla soglia. Lui era seduto sul letto e mi guardava. E vidi quello che temevo. Il suo sguardo era diverso. Non avrei saputo dire in che modo fosse diverso, ma sapevo che lo era.

«No» disse a voce bassa, mettendosi lentamente in piedi.

Io chiusi la porta alle mie spalle ignorando il suo no.

«No cosa?»

«Non lo so» si passò le dita tra i capelli.
«No qualsiasi cosa riguardi contatti tra me e te.»

Io mi morsi le labbra e cercai di non pensare a quanto quella frase mi avesse ferita.

«E credi che così si risolverà qualcosa?»

Lui scosse la testa e rise. Lo guardai stranita da quella risata, ma presto capii che non era ovviamente una risata divertita. Era arrivato al limite di sopportazione di tutto e lo capivo. Ma dovevo capire anche me stessa per una volta. Dovevo fare qualcosa che mi facesse stare finalmente bene. E, in realtà, avrebbe fatto stare bene tutti noi. Non solo me. O almeno speravo che lo avrebbe fatto in futuro. Perché sapevo con certezza che all'inizio avrebbe fatto un male cane.

«Non so cosa credo ma so che non posso parlare con te.»

«Non ti chiedo di parlare, ti chiedo di ascoltarmi» feci un passo verso di lui e lui ne fece uno indietro.

«Non voglio ascoltare niente di ciò che hai da dirmi. Non posso.»

«Non mi importa» alzai le spalle.
«Questa volta -per una volta- decido io cosa è importante. E tu mi ascolterai anche se dovessi essere costretta a legarti all sedia per fartelo fare.»

Lo vidi prendere un respiro profondo e poi guardarmi con delle profonde occhiaie a contornargli gli occhi. Aveva ceduto. Ed il momento era finalmente arrivato. Potevo dire tutto. Qualsiasi cosa gli avevo tenuto nascosta. Il problema è che le cose che non gli avevo detto erano così tante che non sapevo nemmeno da dove iniziare.

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