VIII

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(Alastor)

Passarono diversi giorni e non accadde nulla. Mammon mi disse che ci stesse "pensando lui" e con tutta la marea di cose che aveva da fare ero convinta che contattare il Nido per me fosse l'ultimo dei suoi pensieri. In fondo, lo sapevo bene, non avrebbe tratto alcun vantaggio a spifferare le intuizioni e le prove in mano loro. Avrebbe potuto dare una mano ai traditori in quel modo, ma io volevo parlare solo con Joachlin, chiedergli personalmente della Gemma, di cosa cavolo stesse succedendo al Nido e fargli sapere che fossi viva.

Pensavo che avrei accettato la morte facilmente quando ella mi avrebbe chiamata, eppure ebbi l'impressione che gli eventi mi fossero sfuggiti dalle mani e ora tutto mi stesse remando contro. Prima ritrovarsi chiusi all'Inferno senza poter uscire, poi l'essere presa di mira da un principe psicopatico e maschilista, infine Mammon con il suo Patto del crepuscolo.

Sarei stata davvero capace di ignorarlo, di lasciarlo morire di fame, di agonia, e pensare solo a me stessa? Non era la cosa peggiore di me, l'egoismo, però non volevo voltargli le spalle. La mia vita mi era stata ridata per merito suo, mi aveva protetta, salvata, e aveva creduto in me. In quei giorni si era dimostrato più umano, a differenza dei ragazzi del Nido.

Mi svegliai da sola e mi stropicciai gli occhi. L'altra parte del letto era vuota, fredda, il lenzuolo perfettamente steso. Mammon non dormiva mai, o almeno non lo faceva accanto a me. Per un attimo venni attraversata dal fastidioso presagio che andasse in un altro letto, con migliore presenza, e il malumore mi punse, come ogni giorno di prima mattina.

Non mi aveva più toccata o guardata, a malapena mi rivolgeva la parola e la trovai così assurda come situazione. C'era una strana tensione tra di noi e la percepivo chiaramente ogni qualvolta provasse a conversare e io affilavo gli occhi con diffidenza.

Il tavolo del soggiorno era apparecchiato con almeno venti piatti, un vero banchetto secondo i canoni tristi a cui ero abituata. C'erano delle frittelle fritte, pancake con panna e sciroppo, cereali affogati nel latte tiepido, uova, bacon e spicchi di frutta. Lizbett sbocconcellava dei biscotti con gocce di cioccolato e appena mi vide mi fece un enorme sorriso.

«Pensavo non ti svegliassi più. Dormi come un ghiro, lo sai?» parlò indifferente, continuando a mangiare. Mi guardai intorno, cercando qualcuno. «Siediti e mangia. Questa roba l'ha portata Amore, quella donna alta, sguardo assassino e vestita da spogliarellista. Ha detto di farti mangiare e misurarti la pressione.»

«Da quanto tempo sei qui?» le domandai confusa.

«Un'ora. Forse poco più.»

«E Amore quando è venuta qui?»

«Un'ora fa.»

«E tu per un'ora...»

«Ho mangiato» esclamò, mostrandomi una salsiccia croccante. «Oh, Enola, ti prego, assaggia queste cose. Al Nido non ho mai provato niente di così gustoso. E questo è vero ketchup super grasso! È paradisiaco!»

I Demoni si nutrivano di sangue, si diceva che ogni umano fosse diverso, chi più dolce come la vaniglia, chi salati come la soia. Una volta Lizbett mi aveva detto che profumassi di melograno e che il mio sangue fosse come il suo succo, rinfrescante. Non erano molti i Demoni che mangiavano cibo umano, ma alcuni di loro amavano i gusti e, assimilate le energie dal sangue, spiluccavano le briciole dai piatti con ingordigia. Forse Mammon era uno di quei Demoni a cui piaceva godersi piaceri mortali.

Mi sedetti al tavolo e lei afferrò altre salsicce, saltando sul divanetto e acquattandosi comodamente. Guardai tutto quel cibo. Avrei potuto sfamare dieci famiglie dell'Esercito. Fino a poche settimane prima sarei stata a casa mia, da sola, a vivere normalmente. Mi sembrò irreale.

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