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Sei tu che sei svanita nel vuoto, oppure son io che mi sono smarrita nel nulla?

Giovanni Verga 

Una sera, dopo la mia crisi isterica mattutina, Byron passò a prendermi per portarmi fuori. Non volevo. Davvero non volevo, ma la prospettiva di restare in case ed essere controllata di continuo dai miei genitori che mi guardavano con quell'aria così preoccupata e impotente mi aveva spinto a desiderare di passare quanto meno tempo fosse possibile a casa. Camminammo in silenzio per un po', come avevamo fatto durante la nostra ultima passeggiata, ma sapevo che voleva chiedermi qualcosa. Parlarmi, sapere come stavo. Lo capivo dal modo in cui tratteneva il respiro per un attimo di troppo, ma poi ci rinunciava.

-Come stai?- mi chiese alla fine mantenendo lo sguardo sul terreno o spostandolo sul cielo. Ovunque tranne che su di me. Stavo addirittura peggio dall'ultima volta che ci eravamo visti.

-Bene- mentii con un sorriso forzato. Lui lo capì, era impossibile non farlo, eppure non mi fece domande cosa che apprezzai. Stava aspettando fossi io ad aprirmi, a confidarmi con lui e mi ritrovai a chiedere alle stelle in cielo se fosse poi questa brutta cosa. Avevo bisogno di qualcuno che mi capisse, la seduta dallo psicologo era fissata per la settimana dopo e Stacy... Cercava di confortarmi, ma non capiva. Il mio era un dolore da perdita, quel tipo di dolore che ti lacera dall'interno se non lo affronti nel modo giusto e al più presto. Byron era un Marines, chi meglio di lui poteva capirmi? Poteva capire la perdita, la sofferenza, la morte...

-Sento un vuoto nel petto, dalla mattina quando mi alzo alla sera quando mi addormento. È come se mi fosse stato portato via un pezzo della mia anima, del mio cuore, di me- presi un respiro per trattenere le lacrime. Piangevo in continuazione. Continuai a camminare e a guardare verso l'orizzonte nell'oscurità della sera, avevo bisogno di fare qualcosa per poter parlare di tutto quello che mi stava capitando.

-Non capisco quello che mi succede...- Byron continuava a stare in silenzio, anche quando mi fece cenno di fermarci e sederci sulla sabbia in spiaggia. Mi stava dando il tempo necessario affinché fossi io a dettare il ritmo che volevo per quella conversazione.

-È come se... Sento che dovrei ricordare qualcosa, di importante, ma non ci riesco e piango per ciò che non ricordo. Perché l'angoscia che provo è reale. È ancora qui- mi portai una mano al petto, dove teoricamente avrebbe dovuto trovarsi il cuore, e per la prima volta quella sera lo guardai negli occhi. Sembrava così impotente e odiava la cosa.

-E io ci provo, sul serio, ma non ricordo nulla e nessuno sembra capirmi. Ma se da un lato penso questo, dall'altro mi rendo conto che sia impossibile. Cioè, se non ricordassi qualcosa di importante la mia famiglia, i miei amici o Stacy me lo avrebbero detto invece per loro è tutto normale...- abbassai la testa nel vano tentativo di nascondergli le mie lacrime, strinsi nel palmo la collana che avevo trovato l'altro giorno, l'unica cosa in grado di farmi respirare un po' meglio in momenti come quelli che erano diventati all'ordine del giorno ormai.

-Esiste una parola portoghese che non ha traduzione in nessun'altra lingua. Saudade. È un termine che indica la nostalgia, la tristezza... Il vuoto che provi alla mancanza di qualcosa che hai vissuto, persino ciò che tuttavia non hai perso, ma che sai perderai, misto al desiderio, alla volontà di rivivere quei momenti. Non mi viene in mente altre parole per descrivere ciò che senti in questo momento- Saudade... Saudade. Conoscevo già quella parola, ma non ci avevo mai pensato in quei termini. Per qualche ragione quando pensavo al portoghese la mia mente riusciva solo a ricordarsi una parola, Cafuné. Era una strana sensazione quando mi veniva in mente, ma piacevole. Una delle poche cose che mi facevano sorridere in quel momento.

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