Capitolo Ventunesimo

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I said Heaven ain't close in a place like this


L'aria che si percepiva all'interno di quelle mura era irrespirabile. Vista dall'estero, quella era una comune villetta unifamiliare posizionata in periferia. Una delle tante, uguale a quelle che aveva di fianco, certo, però c'erano tanti piccoli dettagli che la differivano in modo inequivocabile da tutto il vicinato.

Il prato per nulla curato, lasciato lì a crescere da mesi, per non dire un anno addirittura. La vernice della facciata che stava sbiadendo e l'umidità che stava facendo il suo corso. Tante piccole cianfrusaglie lasciate fra le erbacce, cocci di vasi in ceramica, che in tempi migliori avevano visto dei bellissimi fiori, oppure palette da giardinaggio.

Se ci si soffermava a guardare quella casa, che riportava il cognome Foster sulla cassetta delle lettere un po' ammaccata, oltre il cancelletto di entrata si poteva pensare che fosse abbandonata. Nessuno avrebbe mai lasciato che un abitazione che aveva visto proprietari trattare il giardino, così come il resto delle proprietà, con i guanti bianchi si riducesse in quello stato, eppure era abitata.

All'interno, che non se la passava affatto meglio dell'esterno, giaceva sul proprio letto un ragazzo. Attorno a sé c'era un cimitero di bottiglie dal contenuto vario, ma perlopiù alcolico, cicche ammucchiate in un portaceneri stracolmo e sul pavimento vestiti su vestiti, sporchi e non. L'aria viziata lo assorbiva e il buio lo cullava.

Le saracinesche chiuse, sigillate. Il minore della famiglia Foster non ne voleva sapere di uscire con la luce del sole, e se proprio doveva lo faceva di sera per comprare i generi di prima necessità, ovvero: pane, acqua, lette, alcool e l'erba dal suo spacciatore, il quale non entrava in servizio prima della dieci di sera. La pizza se la faceva portare a casa.

Agli occhi esterni, di vicini o familiari, lui si era ridotto molto male, dacché era un ragazzo come tanti altri con un futuro avanti, Eric, dopo la morte per malattia della madre, non era riuscito ad andare avanti, non come suo fratello che cercava di fare di tutto per lui. A Eric però poco importava di quello che gli altri pensavano.

Lui non riusciva a non stare male. Sapeva che era colpa sua, di chi altri se no. Le era rimasto solo lui, doveva fare di più, lui aveva il dovere di aiutarla, e invece non aveva fatto nulla più di quello che avrebbe fatto un estraneo. Se solo le fosse stato più accanto, se avesse lasciato tutto per lei, ora non sarebbe tre metri sotto terra.

Sì era comportato come gli altri invece. Le aveva dato retta quando lei diceva che stava bene. Quante sedute di chemio aveva affrontato da sola solo per evitare la stessa sofferenza a loro. Non doveva ascoltare quando diceva che tutto sarebbe andato nel modo giusto, dove impegnarsi e starle accanto. Ma invece si vede che aveva ereditato da quell'uomo schifoso, e non da sua madre.

Se suo padre non gli avesse abbandonati così, su due piedi, se non avesse abbandonato lei, a crescere due poco più che bambini non si sarebbe mai ammalata. Quell'uomo aveva anche avuto il coraggio di presentarsi ai funerali, cosa che Eric non era riuscito a fare. Un'altra cosa in cui non era stato abbastanza per lei.

Allungò una mano, gli occhi abituati alle tenebre della sua camera non faticarono ad individuare una bottiglia di Bourbon lasciata a metà. Aveva sete, e l'unica cosa in grado di dissetarlo era quella al momento. Prese con la mano la bottiglia per il collo e fece saltare con il pollice il tappo appena poggiato. Ne prese due grandi sorsi, uno dietro l'altro. Lo riscaldarono, ma non era il tipo di calore che gli serviva.

Si distese con un tonfo sordo sul letto. La testa sbatté in modo violento sul cuscino, mancando di poco il muro. Se avesse sbagliato, se si fosse trovato più vicino al muro, sicuramente ci sarebbe andato a sbattere e con la forza con cui si era lasciato andare si sarebbe fatto sicuramente un gran male, forse sarebbe riuscito a procurarsi una ferita mortale.

When We Are GoneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora