3. Sfida

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L'asfalto scuro, ruvido e irregolare come i miei pensieri, si scalda piano sotto al tiepido sole mattutino. Siamo in uno spazio stretto fra gli alti edifici della scuola, sul retro della palestra. L'erba umida un po' troppo alta circonda il campetto, dove le mie Vans nere e le sue Adidas Gazelle scalpitano impazienti.

Il ferro rossastro del canestro, arrugginito ma solido al tempo stesso, domina l'intera area dall'alto dei suoi duecentosessanta centimetri di altezza. Una fila di finestre alle mie spalle aprono spazio agli sguardi indiscreti degli studenti delle prime e seconde classi, che vanno riempendo le aule.

Speriamo che non facciano troppo caso a due idioti che tirano a canestro di prima mattina.

«Sbrigati, o farai tardi.»

«Rilassati, Den. Mi procuro una palla in un attimo.»

Mentre parla, digita sul telefono come un forsennato.

«Non ti azzardare a chiamarmi così.»

«E allora tu non mi chiamare Dave.»

«E come accidenti dovrei chiamarti?»

«Potrei farti la stessa domanda.»

«Fammela, e ti darò una risposta.»

«No. È più divertente continuare a chiamarti Den.»

Giuro che lo strozzo. È incorreggibile.

Il sole scalda i polpacci nudi, la pelle è umida del sudore leggero della corsa mattutina. Al centro del campo, delimitato da una sbiadita linea giallastra che lotta per resistere al tempo, cammino avanti e indietro, nervosa. Mi sono fatta trascinare in un'idiozia totale, e non vedo l'ora di farla finita e levarmi di torno. Chi me l'ha fatto fare?

Le vene dell'afroamericano. O i tatuaggi dello spilungone. Ma poi, che diamine, devo chiedergli i nomi. Non voglio continuare a chiamarli nella mente come manzo numero uno e manzo numero due. È ridicolo. Come tutta la mia vita, d'altro canto.

Dall'angolo della palestra, lontano dieci metri, sbuca una testa. Appartiene a un ragazzino con le lentiggini, gli occhiali quadrati e una smorfia di disapprovazione dipinta sul volto.

«Ecco la nostra palla!» esclama David, avvicinandosi al tizio. Confabulano per dieci secondi. Io incrocio le braccia sul seno, più per coprirmi che per altro. La pelle sudata al lieve vento comincia a darmi i brividi. E poi non voglio che mister lentiggini mi guardi le tette, diciamolo. Non è proprio il mio tipo. A parte Chris Hemsworth, nessuno lo è. Ah, mettiamoci anche manzo uno e manzo due, ovvio. Cazzo! Avevo detto di non chiamarli più così.

Il pallone è rosso e bianco, con gli spicchi cuciti ad arte sulla superficie ruvida. Dave lo strappa dalle mani del ragazzino lentigginoso, che rassicura con una vistosa pacca sulle spalle, e poi me lo lancia. Lo afferro al volo, facendo scorrere la superficie rugosa sotto le dita dalle unghie smaltate.

David congeda il ragazzino, che fugge dietro l'angolo, forse diretto alla propria aula, e viene verso di me.

«È un bravo ragazzo, non viene mai a scuola senza la palla! Farà strada, anche se non è forte come me.»

«Questo è tutto da vedere.»

Lui indossa dei jeans e una maglietta grigia coperta da una felpa Fruit of the Loom amaranto scuro. Se la sfila, lanciandola fuori dal bordo del campo. Mi chiede il pallone con un gesto. Glielo lancio. Lo afferra, esegue due palleggi perfetti.

«Bando alle ciance. Iniziamo.»

Piego le ginocchia, e difendo il canestro dal centro della sbiadita lunetta. La coda di cavallo mi esce dal cappellino nero della Nike. Lui palleggia, immobile, cambiando mano a ogni rimbalzo. Il respiro si fa leggero, concentrato. Gli occhi scuri sui miei occhi chiari. Le mani grandi sulla palla bianca e rossa, come i colori del Rimini, la squadra della nostra città, dove giocano i due ragazzi che mi vogliono conoscere. Gli unici dopo un anno che si siano interessati a me.

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