13. Interruzione

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Il sole di metà maggio rifulge nel cielo terso, lancia raggi dorati che fanno scintillare le ultime gocce di rugiada fra i fili d'erba. Io e Jessica, in tarda mattinata, passeggiamo con un cesto ciascuna sotto braccio. I nostri passi scricchiolano sulla ghiaia del sentiero fra le colline di Corpolò, a pochi chilometri da casa e già immerso in aperta campagna.

«Ho combinato un casino.»

«E ti pareva! Dimmi tutto.»

Il grano è ancora verde, acerbo, si confonde con le erbe infestanti. Fra pochi mesi, puntolini di papaveri scarlatti orneranno i fossi ai bordi dei campi, come piccole macchie di sangue vivo in mezzo al giallo acceso del frumento. Tuttavia, sono le foglioline della pianta di papavero che ci interessano al momento, non i fiori. Dobbiamo raccoglierle per preparare la specialità romagnola per eccellenza.

Il papavero è bello, piace a tutti guardarlo. Ma non si mangia mica, da fiore. Si mangia quando è una tenera foglia verde, acerba. Proprio come me in questo momento: acerba e insignificante. Forse, però, maturerò. Chissà se, tra pochi mesi, anche io avrò le idee più chiare. Mi domando perché non capisco mai nulla delle situazioni, se non quando è troppo tardi. Mi pento pure di aver tirato fuori l'argomento, ma ormai è fatta.

«Senti, Jess, non so nemmeno se è un problema, non vorrei tornarci sopra.»

Lei sbuffa e scuote la testa. «Sei sempre la solita.»

«No, aspetta, te lo racconto, dai...»

«Intendevo dire che hai lasciato queste!»

Mi supera e si china a raccogliere. Io non le riconosco mai, le rosole. Mi sembrano erbacce come le altre. La mia amica, invece, è un asso pure in questo.

«Guarda dal tuo lato, altrimenti ne lasciamo la metà.»

Io fisso il canestro di vimini, quasi pieno delle preziose erbe color smeraldo. «Mi pare che ce ne siano già abbastanza.»

«Tesoro, ce ne servono almeno il doppio. Hai presente quanto si restringono quando le lasci a riposare dopo averle tagliate?»

«Ehm... no.»

«Certo, perché non l'hai mai fatto!»

«Non vorrai mica dire che una donna deve saper cucinare per forza? Ti picchio, eh. Siamo nel duemiladiciannove.»

«Macché! Ti pare? Poi, confesso, lo so soltanto perché le cucina Raffaele. Oltre a mia madre e mia nonna, chiaro.»

«Ecco, appunto. Non c'è niente di male nell'essere impediti a fare qualcosa. Poi, io sono un caso estremo, lo ammetto.»

«Ma smettila! Comunque, tagliando corto, ti va di raccontarmi questo casino che hai combinato, sì o no?»

Sospiro, lanciando lo sguardo lontano, a perdersi fra le dolci linee dei pendii, oltre il verde cereale acerbo come me, oltre le file di pioppi cosparsi di soffice neve bianca che svolazza al vento di maggio. Meno male che non sono allergica, guarda. Ci mancava solo un ulteriore problema.

Jess aspetta. Riordino le idee.

«C'è una cacchio di fiera maledetta, a inizio giugno.»

«Stai parlando del lavoro, vero? Perché mi tocca sempre decifrare?»

«Senti, Jess, se c'è una cosa in cui non sono una frana totale è raccontare le disgrazie. Quindi, per favore, non interrompere.»

«Va bene, ma non ti scaldare.»

«Mi scaldo eccome, dannazione. Comunque sì, sto parlando del fottuto lavoro.»

«I termini coloriti fanno parte della tua capacità di raccontare le disgrazie?»

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