Capitolo 30

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Buon pomeriggio!

Mi dispiace per il colpo al cuore dello scorso capitolo, ma era da un po' che non ve ne davo uno e quindi dovevo rimediare con qualcosa di abbastanza grande... no?

Posso anticiparvi che con questo nuovo capitolo la situazione non migliora chissà quanto, ma credo che la maggior parte di voi questo lo immagini già. O forse no. Nel caso, so che me lo merito e quindi potete insultarmi sui vari social, non mi offenderò nemmeno ahahah

Mi scuso in anticipo per possibili errori, ho corretto il capitolo velocemente solo per riuscire a postarlo oggi e non farvi aspettare fino a venerdì! Ci tornerò presto per rileggerlo.

Un bacio e buona lettura! x

***

Le sirene delle ambulanze che arrivavano o lasciavano l'ospedale, il chiacchiericcio di medici ed infermieri e la pioggia che batteva sulle finestre erano pressoché gli unici suoni che sentivo ormai da ore.

Avevo, intanto, visto il pavimento bianco di quella sala d'attesa diventare arancione mentre gli squarci di sole visibili tra le nubi sparivano, solo per poi tornare nuovamente bianco mentre rifletteva le luci artificiali che illuminarono quella sala d'attesa al calare della sera; una signora di mezza età era stata l'unica persona che aveva occupato per un po' una delle numerose sedie libere che avevo intorno, ma era passato ormai un po' da quando un medico l'aveva raggiunta per avvertirla del fatto che l'operazione del marito fosse andata bene e che potesse quindi vederlo. Da quel momento, ero rimasta completamente sola.

In ogni caso, la solitudine era esattamente ciò di cui sentivo di aver bisogno. Non mi andava infatti che sconosciuti guardassero incuriositi la ragazza che, con un camice d'ospedale addosso, una fasciatura intorno alla testa e l'anulare ed il mignolo della mano destra steccati, fissava il pavimento quasi senza batter ciglio e senza muoversi neanche di un solo centimetro; non mi andava che si domandassero cosa le fosse successo o cosa stesse facendo in una sala d'attesa piuttosto che nella camera che le era stata assegnata, e, soprattutto, mi paralizzava anche solo il pensiero che qualcuno più audace potesse porgere quelle domande direttamente pensando di poter aiutare, o anche solo per fare conversazione.

La verità era che fisicamente ero sola, ma erano ore che nella mia testa regnava il più totale caos e non avevo alcuna idea di come mettervi fine. Alcune voci mi stavano gridando di alzarmi in piedi e cercare qualcuno che mi desse qualche notizia, seppur minima, su quel che stava succedendo nella sala operatoria alla fine del corridoio; altre voci, più pacate e codarde, mi stavano invece suggerendo di andare in camera e riposare anche solo un'ora nella speranza che il tremendo mal di testa a cui stavo provando a non pensare mi desse almeno un po' di tregua. Indecisa sul quali voci ascoltare e desiderando solo di poterle mettere tutte a tacere, avevo allora semplicemente rinunciato a scegliere e deciso che rimanere lì fosse la soluzione migliore.

Tra le voci che si sovrapponevano tra loro e che finivano per cancellarsi a vicenda, ce n'era però una che continuava a rimanere chiara e limpida e che spiccava sopra tutte le altre.

Hai tutto il mio cuore, Prim. Ti amo.

Quelle parole non avevano smesso un secondo di ripetersi nella mia testa, neanche quando, appena arrivata in quell'ospedale nel centro di Washington, ero subito stata visitata e sottoposta a vari controlli; neanche quando, una volta in camera, avevo fatto una doccia per lavare via il sangue che si era ormai seccato sulla mia pelle; neanche quando, ignorando l'infermiera che mi aveva suggerito di riposare, avevo preso a vagare per l'ospedale alla ricerca della sala d'attesa nella quale mi trovavo al momento. Il mio inconscio semplicemente si rifiutava di smettere di ripropormi quelle parole ancora e ancora, quasi come se, se lo avesse fatto anche solo per un secondo, esse potessero pian piano svanire ed il loro reale significato potesse invece colpirmi come un fiume in piena.

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