05. Un tuffo nel passato

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Apro lentamente gli occhi.
La testa mi gira un po', ma sicuramente va meglio di ieri sera. Le immagini della serata trascorsa qualche ora fa non fanno altro che proiettarsi davanti gli occhi, rendendomi evidente la realtà dei fatti: mi solo lasciata andare un po' troppo. Solo ora mi rendo conto che non avrei dovuto andare al locale, non avrei dovuto bere, non avrei dovuto perdere Dylan, non avrei dovuto ballare con Odeya... e non avrei dovuto farmi aiutare da Aaron.

Con un movimento pacato, mi giro di lato e osservo il petto di Dylan alzarsi e abbassarsi lentamente. Il suo viso è rilassato, è rivolto verso la mia direzione e una mano è sotto il cuscino su cui la sua testa è appoggiata. Ieri dopo essere arrivati a casa mi ha guidato verso il bagno lasciandomi una maglietta per cambiarmi e bussando ogni due secondi per assicurarsi che non fossi svenuta sul pavimento.
E dopo avermi messa a letto è crollato al mio fianco.
Osservo i lineamenti del suo volti, gli stessi di quel bambino che mi si è presentato in un parco con una richiesta insolita. Avvicino titubante un dito e con delicatezza traccio le linee che scolpiscono il suo viso. Gli traccio il profilo, fino a giungere al suo naso tendente verso l'alto. All'ennesima lamentela da parte di un Dylan ancora dormiente mi convinco ad alzarmi.

Il profumo del mio bagnoschiuma alle ciliegie arieggia per la stanza, con ancora l'asciugamano avvolto intorno al mio corpo bagnato mi dirigo verso l'armadio. E dopo essermi vestita ed aver rimboccato la coperta a Dylan esco dalla camera.

Il freddo pungente di prima mattina mi urta contro. Mi stringo nella felpa nera che indosso, d'altronde è ovvio che faccia così fresco, sono le 5.45, il sole sta sorgendo.

"Attenta." per poco non schivo il giornale che James lancia contro la porta di casa e dopo avermi rivolto un sorriso di scuse, il ragazzino del giornale sfreccia nuovamente sulle route della sua bici ripetendo lo stesso gesto con tutte le case del quartiere.

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Osservo le foglie degli alberi mosse leggermente dal lieve venticello che aleggia per l'aria. L'autunno è alle porte. Sono felice che l'estate ormai sia terminata, non ne potevo più. Nonostante sia una delle stagioni più amate, a me proprio non piace. Fa costantemente caldo, troppo caldo. Il calore mi rende più stanca del solito. E poi ci sono le costanti feste a cui Dylan, e anche Anthony, cercano di portarmi. L'idea di stare in mezzo a tanti corpi sudati tutti ammassati tra loro mi fa venire i brividi. Poi c'è il mare. Mi piace andarci alla condizione che la spiaggia non sia troppo affollata. Mi piace stare sotto l'ombrellone non facendo minimamente nulla. Infine ad aumentare il mio odio verso l'estate ci sono Erika e Mark. Purtroppo in estate il loro lavoro è per la maggior parte del tempo qui a Chicago, perciò sono sempre a casa.
"Vorrei che tu ti esprimessi..."  Erika sogna troppo.

Ho così tanti pensieri in testa che sbaglio la strada che stavo prendendo. Mi ritrovo così in un quartiere che conosco a vista, ma che distante dal panificio in cui ero diretta. Per arrivare a destinazione sono obbligata a passare per uno dei parchi più famosi di queste zone, the peace park.
Con le mani nelle tasche dei jeans scuri e la borsa di tela sulla spalla, mi incammino verso il parco. Il parco è immerso nella natura. È molto grande, all'interno c'è una zona giochi per cui sarò obbligata a passare. Per raggiungere le varie zone del parco c'è un lungo sentiero, e ai lati di questo c'è una fila di alberi dai colori caldi.
Tra qualche settimana tutte queste foglie saranno sul suolo.

La mia attenzione viene catturata dalla risata di due bambini che si ricorrono. Entrambi ridono mentre il bimbo dietro continua a ripetere che lo raggiungerà.
"Dove scappi, tanto di prendo." grida fermandosi un attimo per riprendere fiato per poi ricominciare a correre dietro l'amico.
Io sono ancora qui.
Ferma, immobile.
Resto lì inerme ad osservare la scena. Le risate, i bambini, il parco... c'è tutto. Osservo il bambino che è riuscito finalmente a raggiungere l'altro, saltandogli addosso e abbracciandolo. Entrambi ridono, entrambi sono felici. Subito dopo si aggiunge una terza figura, sembrerebbe il nonno. Prende i due nipoti per mano e pian piano tutti e tre si incamminano verso l'uscita del parco e nel mentre incominciano a tartassare il nonno di domande chiedendogli cosa avesse fatto la nonna per colazione.
E io resto ancora lì.
Ferma.
In mezzo al sentiero, a qualche metro dall'uscita. Il mio corpo è lì, immobile. Gli occhi puntanti nella direzione dove poco fa c'erano i bambini ma la mente... la mente viaggia tra i ricordi.
La matita rosa mi scivola dalla mani e quando mi abbasso per raccoglierla davanti a me compare la figura della  maestra Juliet.
"Ecco qui." è in ginocchio davanti a me e allunga la mano per prendere la matita e porgermela.
La prendo dalla sua mano e ritorno a colorare l'immensa chioma del mio ciliegio.
"Narsa." la maestra ora si è alzata e si è seduta accanto a me, sulla panchina del cortile della scuola.
"Oggi è una bella giornata non credi? Perché non vai a giocare con i tuoi compagni? Guarda sono lì." mi sorride dolcemente indicandomi un gruppo di bambini che giocano a 'ce l'hai'.
"Che ne dici? Se vuoi ti accompagno io da loro." continua mentre con la mano mi accarezza il capo spostandomi una ciocca rossa dalla visuale.
Scuoto la testa per poi ricominciare a colorare.
"Non vuoi giocare ad acchiapparella? Lì infondo ci sono Trixie, Chloe e altre bambine che giocano con le bambole, non vuoi giocare nemmeno con loro?"
Mi indica con un cenno del capo il gruppo di bambine rannicchiate sul prato verde che pettinano i capelli alle loro bambole.
"Non vuoi?" scuoto nuovamente la testa per poi dedicare la mia completa attenzione al disegno appoggiato sulle mie esili ginocchia.
È veramente bello.
Nel colorare la parte superiore del foglio, i miei occhi ricadono sulla sbucciatura presente sul ginocchio. Non ho detto a nessuno come me lo sono procurata, nemmeno a Tony. Non gli ho raccontato del modo in cui Trixie, aiutata dalle sue amiche, mi ha tirato per una treccia per poi spingermi per terra, facendo scontrare il mio ginocchio sul ruvido cemento della staccionata davanti scuola. Non gli ho raccontato del modo in cui successivamente si sono tutte messe a ridere di me chiamandomi 'Pippi calze lunghe' a causa del colore dei miei capelli o delle lentiggini sparse sulle mie guance, che Trixie era solita a chiamare sporcizia. Non gli ho raccontato del modo in cui sono rimasta ferma tutto il tempo senza fare nulla o versare una lacrima.
Immobile.

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