1 - Londra, 1989

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Agosto

Una t-shirt verde acqua che cadeva perfettamente sulle sue ampie spalle, jeans chiari e un paio di converse. Era quello che indossava la prima volta che i miei occhi incrociarono i suoi dalle folte e scure ciglia. Qualche ciocca di capelli che scendeva giù dalla fronte, le labbra violacee e carnose, e le braccia incrociate sul petto che mettevano in risalto i bicipiti ben in vista.

«Ciao non ho fame. Vado di sopra.» Lo aveva pronunciato a bassa voce, con un insopportabile tono presuntuoso, mentre immobile se ne stava sul ciglio della porta senza nemmeno degnarmi di uno sguardo.

Che razza di arrogante! Pensai, ma non dissi nulla.

«Ne abbiamo abbastanza del tuo comportamento! Dove sei stato? Ti avevamo detto che stasera sarebbe arrivato il nostro ospite. Perché ti ostini ad essere cosi scortese?» Al rimprovero di Robert, il padre, il suo sguardo restò impassibile.

L'ospite in questione ero io.

Avevo letto da qualche parte che in Inghilterra si alternavano solo due stagioni: l'inverno e l'autunno. Nonostante fossi a conoscenza del fatto che si trattasse solamente di un'asserzione pressoché ironica, era bastata a convincermi per sceglierla come meta per il programma di studi all'estero della durata di nove settimane circa.

«Non ci andrai, Mattia! Sei ancora troppo piccolo! Hai soltanto sedici anni!» Aveva detto mia madre quando le avevo mostrato il bando di richiesta che la scuola aveva consegnato agli studenti con la media più alta dell'istituto.

Ero un tipo molto interessato agli studi; avevo buoni voti, leggevo molti libri e di tanto in tanto mi dilettavo a strimpellare qualcosa al pianoforte.
A differenza della maggior parte dei ragazzi della mia età, non sopportavo l'estate, l'eccessivo caldo, il sudore e il tempo libero. Le giornate torride e umide di agosto mi sembravano sempre troppo lunghe ed inutili, ed io non facevo altro che passare il tempo in casa a leggere o a giocare a scacchi in veranda con Nonno Stè.

Quando le lamentele di mia madre sul mio stare troppo tempo in casa diventavano insopportabili, stabilivo che era il momento giusto per darle tregua ed uscire. Così me ne andavo in spiaggia. Il più delle volte da solo, altre invece in compagnia di Fabri e Martino. Mentre loro si preoccupavano della tintarella perfetta, di giocare a beachvolley e di scrutare il lato B delle ragazze distese sui loro telo mare, io invece preferivo starmene sulle mie, al riparo dal sole e ascoltando della buona musica al walkman.

Era stato mio padre a comprendere perfettamente quanto la possibilità di partecipare a quel programma fosse molto importante per me e per la mia formazione personale e scolastica, così dopo diversi giorni di accanimento morboso nei confronti di mia madre, non con poca fatica riuscimmo finalmente a convincerla.

Arrivato all'aeroporto di Londra-Heathrow, la realtà non deluse le mie aspettative. La pioggia picchiettava già sui finestrini dell'aereo non appena aveva toccato terra e finalmente ero riuscito a lasciarmi alle spalle il mio vecchio liceo fatiscente, i gradassi che a scuola non facevano altro che torturami e la noiosa vita di paese dove la gente ficcava il naso negli affari degli altri e dove il momento saliente della giornata, per le signore del quartiere, sembrava essere quello di spiare dal balcone la figlia della Mancini mentre si scambiava tenerezze con il figlio del panettiere.

Avevo serie difficoltà a partecipare attivamente alla vita sociale di quella realtà a cui sentivo di non appartenere. Mi ero reso conto di essere diverso e di non avere alcun interesse in comune con i miei coetanei. Non mi piaceva giocare a calcio in strada, non andavo matto per le motociclette e non nutrivo nessun tipo di curiosità verso il sesso femminile che sembrava invece essere diventato una sorta di ossessione per il resto degli altri ragazzi. Mi capitava spesso di chiedermi se fossi io quello sbagliato oppure gli altri.

I signori Fox, che mi avrebbero ospitato per le settimane di permanenza in Inghilterra, erano stati molto gentili già dal mio arrivo in aeroporto. Avevo portato con me uno zaino e un borsone che avrei potuto far arrivare fino alla loro auto con poca fatica, ma Robert insisté per aiutarmi sfilandomelo dalle mani.

Il tragitto in macchina fino a casa fu molto piacevole. Erano riusciti a mettermi subito a mio agio, mi avevano chiesto di come fosse andato il viaggio e in risposta al mio modo rispettoso di chiamarli "Mr. and Mrs. Fox" mi avevano pregato di rivolgermi a loro per nome. Robert aveva l'aria di essere un uomo riverente e molto rispettoso delle formalità e Caren aveva l'aspetto di una donna elegante e pacata. Passati per il "Westminster Bridge", dal finestrino mi era stato possibile ammirare il sontuoso "Big Ben" che fino a quel momento ero riuscito a vedere rappresentato soltanto sui libri.

Alla fine arrivammo a casa. Dal centro città ci erano voluti soltanto una ventina di minuti. I Fox vivevano in un delizioso quartiere di Londra chiamato "Fitzrovia", una zona molto tranquilla dove le strade erano affiancate da numerose case indipendenti e da negozi e boutique di ogni genere.

Con un solo viaggio riuscimmo a portare tutte le mie cose al piano di sopra, nella camera che sarebbe stata mia per le prossime settimane. Dava sul prato di fronte casa e quando ci ero entrato l'avevo trovata semplicemente perfetta. Era abbastanza spaziosa e dotata di ogni tipo di comfort. Le grandi finestre la rendevano molto luminosa, il letto era matrimoniale, la scrivania in noce sembrava perfetta per studiare e sulla scaffalatura sopra il piccolo televisore avrei potuto sistemare tutti i miei libri.

Nel corridoio, appena fuori dalla mia stanza, si trovava invece la camera di Daniel affiancata ad un bagno che avrei dovuto condividere con lui. I Fox mi avevano parlato di loro figlio in macchina. Mi avevano detto avesse diciassette anni e che avrebbe frequentato la mia stessa scuola superiore.

Dopo aver sistemato le mie cose nella stanza ed in bagno, scesi al piano di sotto per la cena che aveva preparato Giselle, la domestica della famiglia Fox. Era una donna sulla quarantina, scrupolosa e ordinata, dall'aspetto molto dolce che si rivelò, con mia sorpresa, essere anche un'ottima cuoca.

A tavola, Robert mi fece mille domande sulle mie materie scolastiche preferite, sul livello d'istruzione in Italia e si aprì un dibattito sullo scenario politico del momento. Ad interromperci fu l'aprirsi della porta d'ingresso, quando i miei occhi si posarono per la prima volta su quel ragazzo alto dai capelli mossi e castani.

Fu subito dopo il rimprovero del padre, che Daniel mi degnò finalmente del suo sguardo.

Si voltò verso di me sollevando la mano destra con poco interesse, fece un sorriso (di circostanza) e tra qualche ciocca di capelli che scivolava disordinata giù dalla sua fronte, non potei fare altro che perdermi dentro i suoi occhi verdi.

«Io sono Daniel. Benvenuto in Inghilterra. Ci si vede.»

Dopo aver terminato la ridicola presentazione, si girò di spalle e salì di corsa al piano di sopra lasciandomi sbigottito.

Fu il tonfo della porta di camera sua che sbatté violentemente chiudendosi, a farmi sussultare e riflettere sul fatto che io e Daniel non saremo mai e poi mai diventati buoni amici.

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