44 - Londra, 1992

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Ottobre

Non riuscivo a dormire ormai da diverse settimane, ma il rumore bianco all'interno dell'aereo riusciva a inglobare insieme al mormorio della gente, tutta la mia confusione, la paura e il dolore. Quindi tutto si era trasformato in un dolce e continuo ronzio, capace di farmi da ninnananna e lasciandomi assopire con la testa pesante poggiata sul vetro dell'oblò, esausto.

«Signore. Mi scusi, signore. Siamo arrivati a destinazione. La preghiamo di scendere.» La voce melodica di un'assistente di volo dai lunghi capelli biondi e dalla pelle dorata mi svegliò scuotendomi gentilmente una spalla per poi rivolgermi il suo dolce sorriso. In quel momento mi chiesi se si fosse trattato della stessa persona di cui Daniel mi aveva parlato nella sua prima lettera.

Con soltanto uno zaino in spalla, uscii dall'aeroporto e mi affrettai a raggiungere la fermata dei pullman diretti per Londra-centro.

Era fine Ottobre, con un tempo simile a quello di Dicembre, il freddo era pungente e nell'attesa mi strinsi nella giacca prendendo posto sotto la pensilina della fermata, guardando dritto negli occhi l'autista all'interno dell'autobus che si preoccupava di aspettare l'esatto orario di partenza prima di lasciare entrare i passeggeri.

Dopo qualche minuto le portiere si aprirono. Quando entrai, mi sedetti sulla prima poltrona libera con le mani sotto le cosce per farle riscaldare.

La sera era tarda, ma le strade ancora indaffarate. Arrivai a King's Cross dopo più di un'ora. Conoscevo bene quella zona, era stato il mio punto di riferimento per tutto il tempo in cui avevo vissuto a Londra.

Non mi guardai intorno più di tanto, l'angoscia era tale che una volta sceso dal pullman mi affrettai ad entrare in metropolitana senza accorgermi di non avere sterline con me per comprare un biglietto. Risalii le scale, e mi incamminai verso Fitzrovia. Le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, le gocce di pioggia gelida che si spingevano fin dentro al cappotto mentre i pensieri si attorcigliavano su di essi come serpenti dentro al proprio nido.

Le strade del quartiere erano buie, illuminate solo dai lampioni e dalle finestre delle abitazioni che emanavano luci accese o bagliori blu intermittenti provenienti dai televisori.

Quelle dei Fox però erano tutte spente. Perfino le luci dell'esterno. La casa sprofondava nell'oscurità e nell'assoluto silenzio.

Mi addentrai nel cortile a grandi passi, mi avvicinai all'ingresso e premetti l'indice contro il pulsante del campanello. La prima volta brevemente, poi lo feci di nuovo, con più decisione. Rimasi fermo ad aspettare per qualche minuto mentre il cuore mi palpitava nel petto, poi ricominciai a farlo. Una terza, una quarta e una quinta volta. Silenzio. Allora presi a bussare. Battei le nocche della mia mano contro la porta diverse volte. All'inizio con più delicatezza, poi sempre con più forza fino a farle sanguinare. «Dove sei, Daniel?» La voce rotta, tra i denti. «Dove, dove, dove?» Allora le nocche sulla porta diventarono pugni, ginocchia e calci. «Dove cazzo sei finito, Daniel?» I singhiozzi non mi permettevano di respirare, le lacrime mi annebbiavano la vista ed erano diventate pungenti negli occhi infiammati dalla rabbia, dal dubbio e dalla frustrazione. Mi arresi quando mi convinsi che nessuno sarebbe venuto ad aprirmi.

Mi sedetti con il respiro affannato sul gradino della porta di ingresso, ma dopo poco mi alzai nuovamente perché sentii tornare la sensazione di panico. Cominciai a fare avanti e indietro per tutto il cortile. Ero ormai completamente fradicio, le nocche della mia mano pulsavano doloranti e il sangue si era mischiato alla pioggia. La preoccupazione mi stringeva lo stomaco e quando smise di piovere, nell'intera strada era calata ormai l'oscurità. Le mie caviglie erano doloranti, così mi sedetti nuovamente con le spalle poggiate contro la porta.

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