49. Il giusto lieto fine

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Mi sveglio di soprassalto quando l'allarme antincendio si aziona. Il silenzio della notte è spezzato dal grido robotico dell'allarme, mandandomi in panico.

Con uno spintone sveglio Tez, che ancora dorme beatamente al mio fianco, nella stanza padronale dell'attico. Controllo l'ora sul cellulare mentre schizzo via dal letto.
Velocemente recupero una vestaglia per coprire l'intimo.

«Che cazzo sta succedendo?», borbotta strofinandosi una mano sugli occhi. Mi affaccio un breve secondo alla finestra in cerca di aria fresca, ma l'unica cosa che vedo sono delle fiacco provenire dal piano interrato.

Lingue di fuoco vivo salgono verso l'alto in cercasi ossigeno, proprio come me, mi guardano e deridono il mio terrore.

Sento il cuore pompare nel petto in preda al panico. Ci scambiamo uno sguardo preoccupato concordando in un muto assenso.
Prima usciamo di qui prima capiamo cosa sta succedendo.

Con le ciabatte ai piedi corriamo verso le scale antincendio. Mano nella mano scendiamo le scale metalliche velocemente, fino a trovarci nel parcheggio posteriore.

Facciamo il giro del plesso iniziando già a scorgere un gregge di persone radunate fuori dall'hotel. Gente in pigiama, gente in accappatoio con ancora il sapone addosso, bambini urlanti.

Ci facciamo spazio tra la folla fino a raggiungere il personale dell'hotel. Cazzo sta succedendo?

«Signorina Rivera», uno dei concierge mi raggiunge appena il suo sguardo ci scorge tra la folla. La capo receptionist al suo seguito ci scruta con sguardo teso.

«Abbiamo già chiamato i suoi genitori, i pompieri saranno qui a minuti», la paura aumenta nel sentir nominare i pompieri.

«Fate rapporto a me su quello che sta succedendo, subito», mi impongo di rimanere calma e posata nonostante la paura mi stia mangiando viva. La donna mi osserva pensierosa per qualche secondo, prima di iniziare a cantare come un fottuto canarino.

«Le fiamme sono iniziate nel piano interrato, dove teniamo il cibo e le bottiglie di vino. L'incendio è ormai troppo grande per poter risolvere con un estintore. Non sappiamo come sia potuto succedere», le trema la voce, come se si aspettasse un cazziatone da parte mia.

«Va bene, grazie. Non possiamo fare altro che aspettare», e torno da Tez, seduto su una panchina sul bordo della strada.

Le sirene del camion dei pompieri mi fa tirare un mezzo sospiro di sollievo. Mi siedo al suo fianco e mi appoggio alla sua spalla. «Cazzo sto morendo di sonno. Non poteva esserci l'incendio domani mattina?».

Lo sento ridacchiare sotto il mio orecchio. «Se ti sentissero i tuoi». Scuoto la testa senza dire niente e torno ad appisolarmi sulla sua spalla, ma lo stress di questa situazione non riesce a farmi addormentare.

«Hana, Tez! Grazie a dio state bene», mamma ci corre incontro, senza lasciare neanche il tempo a papà di fermare l'auto.
Ci stringe in un abbraccio disperato sospirando tremolante.

«Signori Rivera, sono il capitano dei vigili del fuoco, vorrei parlare con voi di quello che è successo nell'hotel», un uomo alto e brizzolato ci guarda con espressione tirata, come se non gradisse la mia presenza e quella del mio ragazzo.

«Certo, ci dica tutto. I danni sono ingenti?», mamma si accomoda sulla panchina tenendosi una mano premuta sulla parte bassa della schiena. I mesi che avanzano iniziano a farsi sentire.

«Fortunatamente no, siamo arrivati in tempo. Ma c'è una questione più importante da discutere con la polizia: il dolo», sbatto le palpebre un paio di volte cercando di capire.

Mamma deglutisce con forza mentre papà inizia a borbottare parole sconnesse. Anche Tez si irrigidisce come se capisse perfettamente si cosa stiano parlando.

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