26. Fernweh

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Aprii la porta della camera e mi ci fiondai dentro, sperando di trovarla vuota.
Per mia fortuna, dopo una prima occhiata constatai l'assenza di Alexander. Avevo bisogno della più totale solitudine, per concedermi di dar sfogo al turbinio di pensieri che mi vorticava in testa da quando avevo lasciato il Palazzo di Perla.
Per tutto il viaggio di ritorno ero stata scortata da qualcuno: prima da una dama di corte, che a quanto avevo capito faceva parte delle Veneri che Bewhany aveva citato come minaccia ai due uomini dell'Organizzazione, qualunque cosa ciò volesse significare. In seguito Allison mi aveva riaccompagnata alla base. Le avevo raccontato tutto e per fortuna lei aveva avuto il tatto di lasciarmi le ultime ore della giornata in pace, in modo da potermi riprendere, mentre lei avrebbe organizzato una riunione urgente per discutere delle nuove scoperte.

Mi sedetti sulla mia branda, appoggiandomi con un sospiro alla parete dietro di me.
Perché doveva essere così complicato?
Le persone normali dopo qualsiasi evento doloroso riuscivano a cambiare pagina e rifarsi una vita, invece perché per quanto tentassi di lasciarmi il passato alle spalle, questo continuava a ripresentarsi senza un minimo di pietà?
Forse dovevo solo accettare questa mia sfortuna e tentare di conviverci, anziché continuare imperterrita a lottare, tanto era come nuotare controcorrente con la consapevolezza che sarebbero state le onde a vincere.
Con questa nuova convinzione nel cuore, decisi di aprire il cassetto dei ricordi e concessi loro di investirmi in pieno.

Era una notte terribilmente fredda.
Come al solito attendevo Julia all'esterno dell'abitazione.
Era lei che si occupava di sporcarsi le mani, perché io non ne ero in grado. Lei non voleva che anche la sua sorellina venisse "macchiata" da quel terribile lavoro, ma la verità era che io le permettevo di farlo. Ero troppo egoista per fare diversamente, ma dentro morivo per i sensi di colpa.

Julia uscì dal portone con in mano uno straccio imbrattato di sangue. Salì in macchina in silenzio, gettandolo sui sedili posteriori, per poi accendere il motore.
Aveva la fronte imperlata di sudore e il volto pallido come un cencio.
Non sembrava la solita tensione post-lavoro. Conoscevo mia sorella, sicuramente c'era qualcosa che non andava.

«Che succede, Ju?» chiesi preoccupata.
«Non posso dirtelo, ma dobbiamo andarcene di qui e subito.» rispose. Il suo tono d'allarme mi rese ancora più inquieta.
«Andarcene? E dove?!» esclamai.
«A Denhood.»
«Ma sei impazzita? Cosa ci andiamo a fare lì? E si può sapere cos'hai visto?!»
«Smettila di fare domande!» gridò.

Mi ammutolii di colpo. Raramente alzava la voce o rispondeva in malo modo e questo mi diede un'ulteriore conferma che si trattasse di qualcosa di grave.

«Ora arriveremo a casa e andrò a prendere le nostre cose, o almeno quelle essenziali, e poi partiremo.» spiegò con più calma, ma notai che continuava a guardare nello specchietto retrovisore.

Mi limitai ad annuire e fissare la strada buia davanti a noi.

Come da piano, parcheggiò sotto casa e salì a recuperare i bagagli, mentre io l'aspettavo in macchina.
Dopo cinque minuti, però, vidi due ombre avvicinarsi al palazzo.
Cercai di capire di chi si trattasse, magari i ragazzi dell'appartamento di fronte che rientravano a tarda notte dopo aver fatto serata, ma a giudicare da quel poco che potevo vedere alla fioca luce dei lampioni, i due individui non sembravano granché giovani, inoltre ci stavano mettendo troppo ad aprire quel portone, segno che non erano le chiavi che stavano usando.

Scesi dall'auto silenziosamente e mi avvicinai ai due di soppiatto.
Quando fui a una distanza decente, i miei dubbi vennero confermati.
Erano due uomini di mezza età, uno con i capelli di media lunghezza che parevano essere stati immersi in una latta di olio e una grossa cicatrice sulla guancia sinistra e l'altro con un prominente naso aquilino, una barba brizzolata e disordinata e i capelli rasati ai lati, ma comunque spettinati.
Stavano armeggiando con un arnese, cercando di scassinare il portone d'entrata.
Ricollegai la visione di Julia che controllava lo specchietto in continuazione e capii che era lei che cercavano.
 
Mi avvicinai da dietro e con entrambe le mani li presi per la collottola e li sbattei contro il portone.
I due uomini, dopo un primo momento di confusione, si ripresero e subito quello con la cicatrice mi caricò, per cercare di prendermi, ma fui svelta nell'abbassarmi e allungare una gamba per farlo cascare a terra.
Nel frattempo il secondo mi afferrò per la coda, per poi farmi cadere a terra e in un attimo mi si mise sopra, impedendomi di alzarmi.
Piegai le gambe e feci leva sui talloni per provare a sgusciare via, ma fu tutto inutile.
L'uomo con la cicatrice ci raggiunse, ma stavolta aveva una siringa in mano, con all'interno un liquido, che subito mi iniettò nel collo, nonostante tentassi con tutte le mie forze di divincolarmi.
Una manciata di secondi dopo, iniziai a sentire il corpo intorpidito e quando anche la vista si annebbiò, persi definitivamente i sensi.
Non so quanto tempo dopo rinvenni, ma  fu comunque troppo tardi.
Corsi a perdifiato sulle scale fino a raggiungere la porta del nostro appartamento e quando entrai, il mio più grande timore trovò la conferma che non avrebbe mai voluto avere.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 04, 2022 ⏰

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