19. Chivvy

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Camminavo e osservavo i vari ambienti in cui Alessandro mi stava conducendo.
Percorsi dedali di corridoi costellati da svariate porte. Alcune mi furono indicate con nomi che sapevo già avrei faticato a ricordare oltre i tre minuti successivi.
Giungemmo poi in un'ampia sala rettangolare affollata di persone di diversa età, ma la maggioranza doveva aver avuto tra i 16 e i 25 anni.
Vestivano tutti una tuta aderente in tessuto nero, abbinata a stivali alti poco sotto il ginocchio e una cintura. La maggior parte delle ragazze aveva i capelli raccolti, e parlottava tra di loro tra risate varie in attesa, supposi, dell'arrivo di Alessandro.
Un lampo mi riportò ad un altro luogo molto simile, ma dall'atmosfera più fredda e cupa.
Rividi vecchi volti conosciuti atteggiati in espressioni serie e tristi. Busti completamente rigidi in attesa di ricevere ordini.
Incredibile come la scena che mi si parava innanzi agli occhi fosse così simile e al tempo stesso così in contrasto con i miei ricordi.

"Questo è..."  iniziò Alessandro.
"Il centro di allenamento." dissi prima che terminasse la frase.
"Giusto, dovrò abituarmi all'idea che tu sia già in parte preparata a tutto ciò...però dai, scommetto che nessuno all'Organizzazione rideva in questo modo, eh?" sorrise, tirandomi una leggera gomitata.

Gli lanciai un'occhiata che cercai di rendere il meno truce possibile, ma non risposi. Non avevo voglia di scherzare.

"Beh, mentre aspetti che arrivi Allison puoi osservare come lavoriamo, così da farti un'idea. Sei fortunata, è la loro prima lezione pratica." disse. Notai che gesticolava molto mentre parlava.

Annuii in risposta, d'accordo con la sua proposta.

"Vieni, ti presento gli altri." mi incitò, ma sulla mia faccia doveva evidentemente leggersi ciò che pensavo, perché alzò le mani in segno di resa.
"D'accordo, allora ti lascio tranquilla." sorrise e si allontanò.

Io mi calai il cappuccio sul capo e cercai di mettermi in un angolino in ombra, in modo da passare inosservata.

Appena i ragazzi si accorsero della presenza di Alessandro, gli rivolsero sorrisi e pacche sulle spalle.
Lo guardavano e interagivano con lui come fosse un fratello maggiore: con affetto e rispetto. Niente a che vedere con la soggezione e il timore provati dalle matricole verso i generali dell'Organizzazione.
Quella sorta di palestra ricordava molto quella in cui io stessa ero stata formata: bersagli disposti in diverse posizioni e distanze, armi da fuoco custodite in teche metalliche addossate alle pareti laterali. Mi sorpresi nel notare altri generi di armi appese al muro frontale. Osservai da lontano lame di svariate forme e dimensioni scintillare sotto le luci al neon sul soffitto, lunghi bastoni muniti di spuntoni, archi dipinti in diversi colori ornati da piume e ancora altre talmente tecnologiche che non riuscivo nemmeno a identificarle.
Era straordinario, guardare quella parete era come immergersi in una realtà in cui fantasy e fantascienza coesistevano.
Stavo per volgere lo sguardo sulle giovani reclute per osservarle con maggior attenzione, ma le luci si spensero.
Un cerchio luminoso con uno strano stemma che non avevo mai visto, si illuminò sul pavimento e da esso partirono diversi fasci luminosi che si ramificarono a terra e si arrampicarono alle pareti. Man mano che quelle scie luminose si diffondevano per la palestra, al loro passaggio si accendevano schermi impalpabili come quello che avevo visto nella stanza di Allison. Su di essi scorgevo diverse scritte, una mappa e sagome di quelli che, supposi, fossero i ragazzi presenti nella palestra.
Grazie ad essi riuscivo ad osservare i loro movimenti nella stanza anche con quel buio. Lo stesso motivo luminoso tornava poi sulle tute dei ragazzi, rendendoli più visibili ai miei occhi.
Ognuno si recò come prima cosa a prendere un'arma.
Una ragazza snella dalla lunga coda di cavallo castana, afferrò un pugnale e si legò in vita una cintura in cui, come vidi dallo schermo, erano assestate delle sfere metalliche di cui non avevo idea di quale potesse essere il possibile utilizzo. Quella accanto rimase a fissare una pistola e un arco, titubante, prima di optare per il secondo e andare a scegliere la faretra e le frecce.
Ognuno si dispose successivamente ad una certa distanza dagli altri, finendo rinchiusi in scomparti rettangolari relativamente piccoli, generati da pareti di luce che dal pavimento si alzarono fino al soffitto.

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