3.Tarab

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Rientrai in casa sbattendo la porta e mi chiusi in camera senza nemmeno degnare Allison di un saluto. Lei doveva aver notato la mia espressione, perché non mi rimproverò come era solita fare e nemmeno tentò di bussare alla mia porta per farmi domande.
Mi sedetti sul pavimento portando le ginocchia al petto, per poi avvolgerle con le braccia.
Fu strano quando sentii le guance bagnarsi.
Non piangevo dal Giorno Buio e rivivere questo tipo di sensazione mi lasciò un po' di stucco, ma mi abbandonai ugualmente ai singhiozzi.
Avevo permesso che il mio orgoglio venisse schiacciato da quella serpe, ma era stata la parte più razionale di me a prevalere. Non ero stata in grado di proteggere la sua vita, dovevo almeno tentare di proteggere la mia. Ero sicura che lei lo avrebbe voluto.

Passai le giornate seguenti rintanata in camera, continuando a consultare le cartelle che Josh mi aveva lasciato.
Avrei dovuto cercare un ragazzo di nome Mark Talem. Di lui sapevo solo che aveva tre anni in più di me, che abitava in zona e che lavorava presso il pub a cui mi stavo dirigendo ora.
Mi trovai a riflettere che forse era destino e in quel caso il destino era stato davvero perfido.
Era inutile fuggire visto che, come mi aveva gentilmente fatto notare Josh, qualsiasi fosse la mia identità, loro sarebbero riusciti sempre a trovarmi. Forse avrei dovuto cessare di combattere. Abbandonare le armi e rassegnarmi alla forza del mio nemico. Eppure qualcosa in me mi pregava di non farlo. Avrei solamente dovuto attendere il momento giusto e loro sarebbero stati vulnerabili.

Ognuno possiede un punto debole, ma sta a noi scovarlo e sfruttarlo a nostro favore, o almeno è così che lei diceva.
No, non potevo e non dovevo arrendermi. Avrei svolto bene il mio compito e ne avrei approfittato. Josh non si sarebbe lamentato, perché ero brava in quel lavoro, cazzo se lo ero.
Avevo buttato ben cinque anni della mia vita a lavorare per Josh e ormai sapevo come muovermi in determinate situazioni, ecco perché era tornato a cercarmi. Non che me ne facessi un vanto, ma diciamo che era una delle poche cose che potevo aggiungere alla lista di ciò in cui non ero un completo disastro.

Aprii la porta del negozio e il solito insopportabile scampanellìo, attirò l'attenzione di Gibson e suo figlio.

«Guarda un po' chi si rivede.» gracchiò il primo.
«C'è qualcosa che vorresti dirci?» gli fece eco il secondo.
«Sì.» risposi a denti stretti.
«Allora che stai aspettando, ancora?» disse il giovane con un sorrisetto strafottente sulle labbra, mentre il padre nascondeva una risatina dietro alla folta barba candida.

Deglutii. Quello doveva essere il karma, non c'era altra spiegazione.
Avrei preferito mandare a stendere entrambi e uscire da quel locale all'istante, ma sfortunatamente le circostanze non erano a mio favore.

«Scusate, ho sbagliato.» stentai a dire.

Josh avrebbe fatto meglio ad essere soddisfatto del mio lavoro, dopo avermi obbligata a calpestare il mio orgoglio in quel modo.

«Potresti ripetere?» stavolta era il ragazzo a cercare di reprimere una risata.
«Hai sentito benissimo.» ringhiai.
«Attenta a come parli.» tornò serio.

Udii alcuni rumori, seguiti da un suono di passi, che man mano andava intensificandosi.
Limitare la mia vista con il cappuccio aveva fatto sì che gli altri sensi si affinassero.
La stoffa innanzi ai miei occhi venne strattonata via all'improvviso e mi ritrovai faccia a faccia per la seconda volta con il viso scultoreo del figlio di Gibson.
Ancora una volta mi chiesi quale scherzo del destino avesse fatto sì che i due fossero parenti, così stretti per giunta!
Mi forzati di rimanere in silenzio e tenere Il mio sguardo incatenato al suo.

«Bene.» disse dopo un po'.
«Se non è un problema, me ne occupo io.» esordì verso il padre.
«Mi fai un favore così, figliuolo, fidati.» rispose egli per poi dileguarsi senza ulteriori indugi dietro alla porta oltre al bancone.
«Allora.» Gibson junior attirò la mia attenzione, non che fosse difficile in realtà. Nonostante il profondo odio che provavo verso di lui, non riuscivo a ignorare completamente il suo fascino.
«Stasera farai da osservatrice. Ti mostrerò il nostro locale e farò in modo di elencarti tutto ciò che devi sapere e tutte le regole a cui dovrai sottostare. Tu ti limiterai soltanto ad ascoltare senza intervenire se non in caso di domande.» marcò sulle ultime parole.
«Deciderai che genere di lavoro ti interessa e domani discuteremo meglio sul da farsi.» il suo tono non ammetteva discussioni, così non risposi nemmeno, mi limitai a guardarlo di rimando.

Pensai, però, che Allison doveva aver fatto un vero e proprio lavaggio del cervello a questi due per permettermi addirittura di scegliermi l'incarico.

«Seguimi.» disse per poi sparire dove avevo visto sgusciare via Gibson un minuto prima.

Sbucammo in una sala decisamente spaziosa.
Non diedi troppa rilevanza alla disposizione dei tavoli, al tipo di luci o all'ambiente in generale. La mia attenzione fu calamitata immediatamente dal palco posto su un lato del locale.
Non era nulla di che, in realtà, ma il solo pensiero della sua funzione era in grado di scuotermi qualcosa dentro, mi ricordava lei, la sua voce cristallina che grazie al microfono era in grado di prendere possesso di qualsiasi stanza, il suo sogno distrutto in una sola notte a causa di un solo piccolo, ma grave errore.
Fui costretta a deglutire e distogliere lo sguardo.

Dopo più di un'ora passata ad ascoltare il figlio di Gibson (che avevo scoperto chiamarsi Travis) blaterare di cose che non mi interessavano affatto, finalmente terminammo il giro.
Una volta uscita dal locale, la mia dose giornaliera di contatto con il genere umano era già stata largamente superata, così decisi di non tornare subito a casa e concedermi un po' di quiete.
Anziché passare al parchetto abbandonato, optai per andare alla spiaggia.
Calai il cappuccio sul volto e grazie alle mie inseparabili cuffiette, mi persi tra le note di Coming Clean dei Green Day.
Arrivata alla spiaggia, prima di mettermi a camminare sul bagnasciuga, tolsi ragionevolmente le scarpe, dato che gli anfibi e la sabbia non vanno di certo d'accordo.
Camminai per una decina di minuti, godendomi la mia solitudine. Vidi però in lontananza una figura seduta sulla sabbia.
Mi avvicinai per curiosità, ma mi spostai dietro ad una delle piante che a tratti sbucavano sul litorale.
Inutile dire che rimasi scioccata nel riconoscere il volto di Matt.
Avvertii una leggera stretta allo stomaco, ma non seppi trovarne il motivo.
Mi concessi qualche istante per decidere se avvicinarmi o meno, ma non avevo voglia di interagire con nessuno in quel momento. Decisi, quindi, di accucciarmi a mia volta sulla sabbia morbida e osservarlo da lontano.
Avrei potuto benissimo andarmene e lasciarlo solo, ma qualcosa mi tratteneva.
Notai che stava imbracciando una chitarra e che, con delicatezza, ne pizzicava le corde.
Sembrava assorto in quell'operazione e lo ringraziai per questo, visto che mi garantiva di passare inosservata.
Tolsi le cuffiette dalle orecchie per curiosità e immediatamente fui raggiunta dalle note di Unintended dei Muse, seguite dalla voce di lui.
Ne rimasi incantata. Era di una dolcezza impressionante e in qualche modo che ancora non capivo, era in grado di rapirmi completamente.
Mi tolsi il cappuccio.
Ora che ne avevo la possibilità, desideravo guardarlo meglio senza che lui lo notasse.
Lasciai quindi scivolare lo sguardo sul suo volto, accarezzandone i lineamenti quasi con delicatezza, per poi soffermarmi qualche istante sulle sue labbra.
Parevano tremendamente morbide...
E ancora quello stupido senso di attrazione si fece largo in me.

Finiscila. Non lo conosci nemmeno.

Mi rimproverati mentalmente.

Anche se, è innegabile che sia tremendamente bello...

Mi ritrovai a pensare.
Presi un respiro e mi dissi che era meglio andare, prima di impazzire del tutto.
Non era stata una giornata faticosa, eppure a quanto pareva, le chiacchiere di Travis, dovevano avermi dato alla testa.
Lanciai un ultimo sguardo a Matt, concedendomi di ammirarne il volto ancora per qualche istante, dopodiché tornai a casa.
Ad attendermi trovai Allison tutta intenta ad agghindarsi.

«Dove vai?» chiesi ancor prima di salutare.
«Dove andiamo, vorrai dire.» mi corresse con un sorriso smagliante.
«Oh, no. Una festa con te equivale ad andare in discoteca, quindi anche no, grazie.» risposi per poi dirigermi verso la camera.
«E se andassimo da tutt'altra parte?» aggiunse facendomi bloccare sulla soglia.
Osservai il suo sguardo luccicare, così sbuffai sonoramente.
«Okay.» accettai prima di cambiare idea.

Tarab: una parola araba che indica lo stato di estasi che viviamo quando ascoltiamo una musica che ci incanta.

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