Capitolo 13.

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«Mi prometti che parlerete?» sussurrò Colton per la millesima volta.

«Sì. Parleremo Colton, giuro che sarai il primo a saperlo.»

«Cip e Ciop!» ci abbracciò Avril. «Esattamente, quanti insulti ci avete detto a me e quel poveraccio?»

«Quelli che vi meritate.» le scompigliai i capelli che col sole andavano sempre più schiarendosi. Più il tempo passava, più Avril diventava bella. Aveva compiuto da poco diciannove anni, ci passavamo esattamente cinque mesi. Sembrava più grande di quello che era, con il suo fisico non troppo slanciato, perfettamente lineare, le curve ai posti giusti e un sedere che metà del nostro liceo invidiava.

«Quel poveraccio si vendicherà!» Dylan sbucò da un albero non molto lontano da dov' eravamo noi.

Io scoppiai a ridere e lui alzò gli occhi al cielo.

«Ti si bloccheranno le palpebre un giorno.» gli sussurrai all'orecchio appena si avvicinò a me.

«Stronza.» bisbigliò facendomi il solletico.

Mi dimenai e lui si mise a rincorrermi. Abbandonammo Colton ed Avril su quella roccia, e iniziammo a correre verso una meta non definita. I capelli mi svolazzavano di qua e di là, gli occhi mi si stavano riempendo di lacrime dalle risate e le gambe iniziavano a fare pressione.

«Okay Jane, hai vinto! Game over. Fermati!» disse Dylan con il fiatone, a pochi metri di distanza.

Mi fermai improvvisamente, e per poco non persi l'equilibrio cadendo in avanti.

«Wow.» mi piegai con la pancia sulle ginocchia, cercando di trattenere il fiatone.

«Presa!» mi gridò all'orecchio con la sua voce fastidiosamente squillante. Mi afferrò dai fianchi facendomi mettere dritta e iniziando a farmi il solletico alla pancia.

Oh, non lo sopportavo, dico sul serio.

Sia il solletico che Dylan.

«Dylan! Dyl...aaahh!» scoppiai a ridere e mi dimenai tra le sue braccia. «Così no! Muoio!» urlai ridendo.

Lui continuò la sua tortura ridendo senza sosta.

«Ti prego!» singhiozzai ridendo. «Non... Dylan...Cazzo!»

«Mi imiterai ancora?»

«No! Te lo giuro, mai più...» scoppiai a ridere. «Mai mai!»

«Va bene allora. Riposati pigrona.» si sedette a terra. Io lo imitai e mi passai una mano fra i capelli, cosa che fece anche lui contemporaneamente. Qualcosa in comune l'avevamo. Restammo circa cinque minuti a bearci del silenzio che ci circondava. Il fruscio delle foglie, il leggero vento che ci scompigliava i capelli, i rumori tra i cespugli, gli uccelli che svolazzavano e i nostri respiri affannati.

Non so il suo, ma il mio non era affannato solo a causa della corsa appena fatta. Averlo così vicino, parlare così spontaneamente con lui, era sempre una novità per me. Era strano poter condividere tutto quello che mi passava per la testa con qualcuno del sesso opposto e non essere scambiata per pazza.

Con Colton era nata una splendida amicizia, non fraintendetemi, in molte delle nostre camminate mattutine gli avevo rivelato molto di me. Partendo dalla mia pura ignoranza verso le materie "scientifiche", fino a spiegargli cosa provavamo noi ragazze quando eravamo in "quel" periodo del mese, o quando loro ci scaricavano e noi ci rimpinzavamo mangiando schifezze che ci facevano metter su circa quattro chili in una sola serata.

Persa nei miei pensieri gommosi e dolci, non mi accorsi che Dylan si era avvicinato e mi guardava sorridendo.

«Che c'è?» mi girai di scatto.

Never let me go.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora