Capitolo 15.

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«Tu lo sapevi, vero?» sussurrai.

«Non esattamente.» sospirò. «È complicato, Jane. Io non sapevo che... che stesse facendo quelle cose a te

«Ma sapevi che le stava facendo a qualcuno? E non hai detto niente?! Non dirmelo, ti prego.»

«No! Cazzo, no. L'ho saputo poco dopo essere arrivato qui. Mi ha chiamato l'avvocato di mio padre, spiegandomi tutta la situazione. Mi ha fatto vede la denuncia.» disse passandosi una mano fra i capelli.

Avril mi aveva incoraggiata e convinta a denunciare l'accaduto. Ricordo ancora la sera che sua madre ci accompagnò alla centrale, mantenendo il segreto. Sfortunatamente allora non sapevo il cognome di Dave, ma avevo la sua immagine ben impressa nella mente: ricordavo parola per parola, e conoscevo il suo sguardo agghiacciante, i suoi passi e le sue mani ruvide. La polizia non ci aiutò molto, e non appena scoprirono di chi si trattava, io mi rifiutai di sapere altro. Non avevo abbastanza coraggio per affrontarlo, o meglio, per affrontare ciò che rimaneva di lui: la sua famiglia. Non avevo nessuna prova, non sapevo come comportarmi. Ero semplicemente piccola e terrorizzata.

«E...?» chiesi.

«Ed ero sconvolto, come avrei potuto non esserlo?! Mio padre soffriva di una malattia molto grave, che in seguito lo portò a gravi disturbi comportamentale, e non riuscì ad affrontarla. Non era più lui. Diventò pazzo, aveva comportamenti strani. Spesso se ne andava, e non tornava per giorni interi. Miranda cercava di tranquillizzarmi, ma inutilmente. Come potevo stare tranquillo, sapendo che mio padre non era più in sé, e che andava in giro a fare Dio solo sa cosa? Passavo la maggior parte del tempo a casa di Colton. Suo padre, mio zio Merv, era sconvolto.» avvertii la sofferenza nella sua voce. Qualcosa dentro di me si stava rompendo lentamente.

Come aveva potuto, una persona del genere, avere un figlio come Dylan? Sì, era malato, ma la mia mente continuava a rimuovere ogni singolo lato di benevolenza. Come potevo averne, d'altronde? Quell'uomo aveva abusato di me. Mi aveva picchiata, mi aveva trascinata per terra umiliandomi, mi aveva tolto ogni singolo briciolo di dignità. Non riuscivo a vederlo sotto un aspetto umano. Non riuscivo ad associarlo all'immagine del padre che Dylan mi aveva descritto.

Mi risvegliai dai miei pensieri e guardai verso Dylan. Ci alzammo contemporaneamente, e ci abbracciammo. In quel momento niente contava: il passato turbolento, devastante. Eravamo uniti da un qualcosa di troppo doloroso.

Lui non era suo padre. Lui non era Dave.

Gli misi le mani tra i capelli e ci guardammo.

«Io non ti farei mai del male. Piuttosto preferirei tagliarmi un braccio.» sussurrò, stringendomi forte i fianchi. «Mi dispiace. Mi dispiace da morire. È tutta colpa mia, è un inferno. Dopo aver saputo della denuncia, un mese fa, avrei voluto cercarti... ma era una ferita troppo fresca, e non avrei saputo cosa dirti in quel momento.»

«Lo so.» sussurrai abbassando la testa. «Ma non è colpa tua.»

«Jane, guardami.» il suo pomo d'Adamo scese a fatica. «Io non sono lui, e lo sai. Ma...» si staccò da me quasi come se non ne potesse più, «quando guarderai me, rivedrai sempre lui, non è così?»

«No, io credo di no.» sospirai, «È difficile Dylan, è un casino. Ho paura.»

«Cosa ci succederà, Jane? Cosa ne sarà di noi due?» chiese con sguardo spaventato.

«Tu cosa vuoi che succeda?»

«Voglio che succeda e basta. So che il nostro passato adesso è qui, su di noi. Ma non voglio permettergli di essere un ostacolo.»

Ero spaventata a morte. L'idea di perderlo mi terrorizzava. Come avrei potuto riempire il vuoto che avrebbe lasciato andandosene, alla fine dell'estate? Perché affezionarsi faceva così bene, all'inizio, ma poi così male?

Never let me go.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora