Capitolo 27.

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Avevo impiegato molto tempo -più del dovuto, in realtà- per capire che avevo dei seri problemi. Avere allucinazioni non era di certo nei miei sogni di bambina,
e di certo il fatto di essermi immaginata di vederlo davanti a me, con quella familiare espressione corrucciata, arrabbiata e preoccupata non aiutava. Affatto.

«Jane, dì qualcosa.» disse la sua immagine davanti a me.

«Okay, basta. Finiamola con questa immaginazione del cazzo. Tu non sei qui, scompari brutta immagine. Va via.» chiusi gli occhi ed espirai lentamente. «Sto immaginando.» sussurrai.

La mia immaginazione continuava a riflettermi ancora quel ragazzo così bello, così alto, così lui.
E l'immagine si avvicinava a me... riuscivo persino a sentirne il suo profumo. Era forte, penetrante e suo. L'immaginazione permetteva di sentire anche i profumi?

«No, Jane.» sussurrò, «Non stai immaginando. Non l'hai mai fatto. Sono qui, con te. E non svenire, non ho voglia di inaugurare così ogni nostro incontro, ti prego.»

Doveva essere lui. Per forza. Quell'antipatia poteva averla soltanto Dylan.

Non ero nemmeno stupita, non ero elettrizzata, non ero agitata. Ero incazzata. Nera.

«Non puoi essere che tu.» sospirai alla fine. Dovevo scappare da lui. Da tutto. Da quella situazione orrenda, da quella sensazione di ansia, di angoscia, di voglia di saltargli addosso e non mollarlo più.

«Perfetto, ciao e vaffanculo. Spero che ti troverai bene ovunque ti trovi. E... un'ultima cosa: fottiti.»

«Non era questo che mi ero immaginato... ma ciao anche a te.» rispose confuso, grattandosi il collo.

Sollevai leggermente la gonna ignorandolo, e iniziai a correre per le scale laterali delle tribune. Quella situazione era assurda, dannazione. Come riusciva a comportarsi come se niente fosse? Come se io non fossi mai stata male, come se tra me e lui non fosse mai successo niente? Erano passati mesi e lui spuntava così?

In men che non si dica mi trovai nello splendido cortile del campus. Iniziai a camminare, trattenendo a stento le lacrime. Dopo mesi di angosce, eccolo. Era davanti a me, bellissimo e così sicuro.

«La vuoi piantare di correre così, cazzo? Ti ho salvata!» mi gridò dietro.

«Potevi evitare, allora.» mi fermai e lo guardai. «Vuoi rinfacciarmi anche il fatto di esserti gentilmente preso la mia verginità? Vuoi rinfacciarmi anche quello? Fallo. Fallo pure, Dylan. Avanti!» lo spintonai.

Stretto e fasciato nei suoi abiti costosi e eleganti, non batté ciglia. Me lo aspettavo, era da lui. L'alcool in circolo nel mio corpo mi permetteva di essere schietta, e soprattutto di esprimergli tutto il mio odio.

«Cosa c'è? Non dici niente? Meglio così, sai? Meglio. È stato tutto un errore con te. Con quale coraggio mi appari davanti come se niente fosse e mi parli pretendendo una risposta umana? Ti odio!» le lacrime iniziarono a scendere. «E guarda un po', sto piangendo per te per l'ennesima volta. Che cogliona, Dio.»

Andai avanti, continuando a camminare. Ad ogni passo, ogni volta che i miei piedi pestavano il pavimento, stavo meglio.

«Vieni qui, Jane! Porca puttana, non ci vediamo da mesi e tu riesci ad insultarmi non appena apri bocca? Incredibile, cazzo.»

«Già, e questo non è niente di quello che vorrei dirti.»

«Come ad esempio che ti sei innamorata di me?»

«Cosa?!» urlai girandomi verso di lui. «Tu sei malato.»

«Non sono io che prendo dei tranquill...» si fermò di colpo.

Never let me go.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora