Capitolo 21.

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Quelle parole squarciarono non solo il caos che c'era dentro la palestra, ma anche quello che si era creato dentro di me. Provai come una dolorosa fitta allo stomaco, quasi come se avessi subito io stessa quel dolore.

Il mio orgoglio e forse anche la mia cattiveria, mi impedirono di entrare dentro la palestra e vedere quanto fosse grave il danno. In fondo, non erano problemi miei.

Giurai a me stessa che se avessi visto un'ambulanza, solo allora sarei entrata per controllare come stava. Ma con mio grande sollievo, non arrivò nessun' ambulanza, e la partita riprese, anticipata come sempre dal fischio dell'arbitro.

Ero grata ad Avril per non avermi raggiunta. Sapeva bene come stavo in quei momenti, e capiva la mia necessità di rimanere sola con i miei pensieri e rinfrescarmi le idee.

Camminai avanti e indietro per circa dieci minuti davanti all'ingresso principale della palestra, emettendo profondi respiri e cercando di mantenere la calma, in modo da non entrare dentro la palestra e sgozzare quelle ochette e il loro adorato principino palestrato.

«Lo sai che vai più veloce della lancetta dei secondi? Mi fai girare la testa, ragazzina.» disse una voce rauca alle mie spalle. Mi girai di colpo e trovai accasciato per terra un barbone.

«Oh, non era mia intenzione.» mi scusai.

«Lo so. E so anche che sei nervosa. Sbaglio? Saranno circa quindici minuti che continui ad andare avanti e indietro come una dannata. Non sono abbastanza vecchio per essere saggio, ma non sono neanche idiota.» sorrise.

Non era vecchio effettivamente, ma la barba scura sicuramente contribuiva a definirlo, purtroppo, barbone. Era vestito con dei pantaloni grigi sgualciti e un po' strappati sulle ginocchia, delle vecchie infradito e una maglia che un tempo doveva essere bianca. Era terribilmente magro.

Provai compassione per lui. Io ero la a lamentarmi come una ragazzina viziata, mentre c'erano persone che avevano davvero di che lamentarsi, ma non lo facevano. Non chiedevano la pietà di nessuno. Aspettavano semplicemente qualcuno che li notasse.

Provai una fiducia immediata verso di lui, e mi sedetti per terra al suo fianco. Non aveva un odore molto gradevole, ma non doveva sentirsi neanche lui molto a suo agio. Insomma, era estate, e non potersi fare una bella doccia fresca doveva essere un inferno per chiunque.

«Lei non è un'idiota.» gli sorrisi.

«Lei? Puoi darmi del tu, bambina. Una bella ragazza che dà del lei a una barbone non è un avvenimento frequente, sai? Ma ora che ci penso... potrei anche prenderci l'abitudine.» mi fece l'occhiolino.

«Sei simpatico. Come ti chiami? Io sono Jane.» gli porsi la mano.

«Io sono Victor.» mi strinse la mano, e sorrise. «Allora? Cos'è successo là dentro? Se non sbaglio la scorsa volta eri uscita da quella palestra sorridente e allegra.»

«Oh, eri qua? Non ti avevo visto.»

«Sì, sono quasi sempre qua. Sai, i giocatori che vengono qua non patiscono certo la fame. Ma comunque capisco il fatto che tu non mi abbia visto. Sembravi molto presa da un ragazzo. Sbaglio?»

«Mmh no, non sbagli.»

«Storia triste?»

Il discorso prese una direzione inaspettata per entrambi, e così parlammo di argomenti abbastanza generali, senza entrare nei dettagli. Lui decise di raccontarmi parte della sua storia: abbandonato in una chiesa quando aveva solo due anni, fu cresciuto da alcune suore. Tutte severe, pretenziose, e poco genuine per la crescita di un'anima innocente. Così, all'età di sedici anni scappò via dal convento. All'inizio trovò un lavoro, ma poco dopo venne licenziato a causa delle sue origini. La voce si diffuse in tutto il suo paesino, e nessuno lo volle. Di ritornare in quel convento non ci voleva proprio pensare, e così iniziò a girare per le strade, cercando qualcuno che lo aiutasse e lo prendesse per ciò che era davvero: un uomo abbandonato.

Never let me go.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora