Capitolo 1 - Tante storie.

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Eh no, non so cosa sto facendo 🙃 ma si era liberato uno spazietto e non potevo non riempirlo con altro di nuovo, no? Probabilmente no, ma tranquilli, questa la aggiornerò di meno, sto lavorando per riprendere le altre storie. Quindi piano piano aggiornerò anche quelle, promesso!
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Era notte, era buio. Fuori pioveva, era settembre inoltrato, l'aria la sera era più fresca. L'estate era ormai finita ma io avevo ancora addosso il mio pantaloncino blu e la mia t-shirt rossa un po' sbiadita che usavo come pigiama, però avevo ugualmente un po' di freddo. Ero distesa a pancia in giù sul mio letto, la testa sul cuscino, il braccio destro piegato sotto. Non riuscivo ad addormentarmi, non avevo sonno. Mi girai col viso alla mia destra, verso il lato opposto al mio. Lì c'era lei. Era distesa a pancia in su, una mano dietro la testa, lo sguardo rivolto verso il soffitto, nemmeno lei dormiva. Poche ore prima litigammo, fu una stupida discussione, nulla di troppo importante, ma io ci tenni inutilmente ad avere ragione. La stanza era appena illuminata da un lampione acceso che affacciava giusto sulla finestra della nostra camera. La luce era calda, i lineamenti illuminati del suo viso erano morbidi, così come li ricordavo. Le sue labbra erano piene, illuminate da quel fascio di luce al centro, la vidi bagnarsele appena di tanto in tanto. Era assorta nei suoi pensieri, era evidente. I suoi occhi erano lucidi, la discussione fu brutta, dissi tante cose cattive, cose che non pensavo. Lei era stupenda, era la persona più dolce del mondo, e si sorbiva da oltre 5 anni ogni mia scarica di nervosismo. Non sapevo come facesse, non sapevo nemmeno perché lo facesse, ma ero stanca di come andava tra di noi. Lentamente mi voltai, mi misi su un fianco e mi avvicinai a lei. Non le dissi nulla, non esistevano parole che potevano aiutarmi a spiegarle come mi sentivo male in quel momento. Allungai le mie braccia verso di lei, portai una mia mano dietro la sua nuca contro il dorso della sua mano, e l'altra la portai oltre il suo addome, sul suo fianco sinistro. Inizialmente scattò, non si aspettava ciò che feci. Di solito era appunto lei quella dolce, quella dai gesti romantici, quella che mi veniva a parlare dopo una discussione, io ci tenevo ugualmente ma ero meno a mio agio col contatto fisico. Subito dopo si tranquillizzò, il suo sguardo si posò su di me e io la tirai tra le mie braccia. La strinsi a me, la tenni ferma contro il mio petto, il calore del suo corpo era tutto ciò che mi serviva per stare meglio. Sentii le sue braccia dietro la mia schiena, le sue mani sulle mie spalle e il suo viso contro il mio collo. Nessuna delle due aveva intenzione di staccarsi da quell'abbraccio, nessuna delle due aveva voglia di muovere anche un solo muscolo per fare altro, io lo feci però. Tenni una mano dietro la sua nuca, l'altra la portai giù oltre i nostri busti, sulle nostre gambe. Lì c'era il lembo del lenzuolo, lo afferrai e lentamente lo tirai su coprendo entrambi i nostri corpi, ma il suo lo coprii di più. La coprii oltre le sue orecchie, quelle erano una parte del corpo in cui diceva di soffrire particolarmente il freddo. Dopo aver coperto per bene quasi tutto il suo corpo, poggiai il mio viso sulla sua testa, l'altra mano la portai poco sotto il suo orecchio sinistro. Restammo in quella posizione per tutta la notte. Non dormimmo, non parlammo, non facemmo l'amore né qualsiasi altra cosa che di solito facevamo la notte piuttosto che dormire, ma fu qualcosa che ci avvicinò molto di più. A volte le parole non servivano, a volte le promesse erano inutili, il mondo era pieno di buone intenzioni, ciò che cambiava tutto erano i gesti. Io non le promisi nulla, non le dissi che sarei cambiata, ma lo feci e basta. Cambiare era possibile, chi diceva il contrario non aveva molta volontà né un motivo a cui credeva estremamente per farlo, ma io lo feci per lei. Lei che era tutto il mio mondo, lei che rendeva la mia vita degna di essere vissuta...

*********

«Cazzo, sono proprio patetica...» commentai dopo aver scritto quell'ultima frase.
Ero nel mio studio, seduta alla scrivania davanti al mio portatile. Era effettivamente notte, erano le 02:15, probabilmente metà paese era nel pieno del sonno ma la mia mente non aveva alcuna intenzione di spegnersi. In quegli orari davo il meglio di me, mi uscivano fuori le migliori cazzate, le cose più sdolcinate e orrende del mondo. Di notte avevo i pensieri migliori, le idee più folli e le risposte adatte a conversazioni avvenute anche decenni prima. Di notte, quando tutto taceva, avevo più tempo per ascoltare i miei pensieri. Di giorno il mondo faceva troppo rumore, le persone parlavano troppo, e i miei pensieri vagavano nella mia testa senza che nessuno potesse dargli un senso. Di notte invece uscivano fuori dalla mia mente e prendevano vita. Pensavo a ciò che era successo durante la giornata, a ciò che sarebbe potuto andare meglio, a come avrei potuto ribattere in modo migliore ad una frase stupida che qualcuno mi aveva detto. Ripensavo a cose accadute giorni, settimane, mesi e anni prima, ma pensavo anche a ciò che poteva accadere il giorno dopo, o quello dopo ancora. Non sapevo chi aveva deciso che di notte bisognava dormire, ma secondo me la notte non era fatta per dormire, né per avere gli occhi chiusi. La notte era fatta per avere gli occhi aperti, vividi, e lo sguardo sulla persona amata. Tutto sommato ero una ragazza romantica, confidavo nell'amore anche se non volevo più averci nulla a che fare.
Scrivevo libri, romanzi rosa, storie d'amore ispirati spesso a persone che avevo conosciuto o semplicemente visto per strada. Avevo pubblicato una trilogia, non ero molto famosa ma le mie storie riscossero un discreto successo, ed era quello l'importante. Le mie storie le scrivevo tutte di notte, fondamentalmente vivevo solo in quel periodo della giornata. Di giorno mi sentivo come uno zombie, in cerca di cibo da mangiare e un posto in cui morire. Per la mia famiglia non era un buon modo di vivere, ma non vivevo più con loro da quasi 3 anni. Quando decisi di trovare una manager mi salvai da sola la vita, avevo 26 anni, pochi soldi da parte e tanti sogni che riempivano la stanza, nei cassetti ci stavano stretti. La mia famiglia voleva che trovassi un lavoro "normale", che non perdessi tempo dietro a delle stupide storielle che nessuno avrebbe mai letto. Io inventavo storie da sempre, iniziai a metterle nero su bianco quando finii il liceo, ed evitai l'università. Non avevo voglia di studiare per anni come fece mia sorella, lei era la preferita della famiglia, non aveva mai nessuno stupido pensiero per la testa, era sempre stramaledettamente seria. Io invece ero la pecora nera, sempre con idee folli e una voglia matta di non avere una vita lineare. Volevo imparare tante cose, a modo mio mi impegnavo in tutto quello che facevo, solo che non erano cose che per i miei andavano bene. Giulia, la mia manager, mi salvò da quell'ansia costante che vivevo da quando finii il liceo. La sensazione di non essere mai abbastanza svanì quando mi trasferii in una casa tutta mia a 28 anni, avevo pubblicato un solo libro ma un altro era già pronto ad uscire, mentre il terzo lo avevo già in mente. Le idee non mi mancavano, ciò che mi mancava all'inizio del mio percorso era l'autostima e la sicurezza, ma quella l'acquisii grazie a quelle storie e a tutte le persone che mi diedero fiducia. Giulia non fu l'unica a fidarsi di me e delle mie storie, Rosa, la mia editor, si fidò di me ancor prima di leggere la mia seconda storia. Le dissi che avevo in mente altri due libri, dopo il primo, e lei mi propose un contratto che prevedeva appunto tre libri. L'arco di tempo in cui avrei dovuto scriverli non era importante, mi diede un anno per ogni libro, li conclusi molto prima ma mi presi il tempo rimasto per rivedere alcune scene. Tutto sommato andarono bene, io andai a vivere da sola e continuai la mia vita con più serenità. La notte continuavo a scrivere, le idee non svanirono nel nulla e, anzi, avevo più tempo per buttarne giù di nuove. L'unica distrazione che mi prendeva sempre e comunque era Ruby, la mia piccola gattina di circa 6 anni. Era di statura media, un certosino grigio dagli occhi ambrati, tendenti all'arancione. Era carina, adorabile in quella sua posa in attesa ogni sera sulla scrivania del mio studio. Si metteva sempre lì, puntuale come un orologio, alle 23:00, quando finivo la mia dose di film e serie tv quotidiana. Di solito mi seguiva in ogni stanza, restava nel salotto con me fino a quando non andavo via, quella sera no però, quella sera si fece trovare già seduta alla scrivania. Non appena entrai nel mio piccolo studio, la trovai seduta tranquillamente sulla scrivania che era in fondo alla stanza vicino ad un ampia finestra. In quello studio avevo anche un divanetto rosso, due poltrone dello stesso colore, un piccolo tavolino lì vicino e una libreria in cui tenevo tutti i libri che avevo comprato negli anni. Non erano molti, iniziai tardi a comprarne, e la scrittura occupava già buona parte della mia concentrazione. Sulla scrivania c'era un portatile grigio che in quel momento si confondeva con Ruby, ma solo perché lei c'era seduta comodamente sopra.
«No, Ruby, scendi!» le dissi provando ad avere un tono autoritario, ma con lei non funzionava mai.
Mi guardò semplicemente con quei suoi occhioni ambrati, ma quando io mi avvicinai velocemente alla scrivania lei scese dal portatile e si fermò sul bordo miagolando. Lentamente la presi in braccio e le accarezzai la testa e quelle sue dolci zampette, miagolò un'altra volta, con gli occhi chiusi però. Era soddisfatta, era esattamente ciò che voleva, mi fece le fusa e io continuai ad accarezzarla per un po' concentrando il mio sguardo sul suo orecchio destro con la punta mozzata.
La sua storia era piuttosto triste, aveva quell'orecchio per metà mozzato e una piccola cicatrice lunga appena una falange sull'addome, all'altezza delle zampe anteriori. Entrambe quelle ferite le furono procurate da una banda di ragazzini nel mio vecchio quartiere, circa 4 anni prima, Ruby ne aveva solo 2 quando successe. I ragazzini erano all'incirca 5, il più piccolo aveva 15 anni, il più grande ne aveva 18. Quei ragazzini si divertivano a far casino in quartiere, a dar fastidio a chiunque incrociasse i loro sguardi o provasse a dirgli di tacere. La polizia non serviva, era pressoché inutile, e io all'epoca vivevo ancora con i miei genitori. Sapevo che prima o poi sarei andata via da lì, che sarei andata a vivere da sola, quindi non volevo lasciare i miei genitori alle prese con le stupide ripicche di quei ragazzini, ma quel giorno non riuscii a farmi gli affari miei. Dentro di me vigeva un'ingenua ragazzina, la crocerossina che voleva a tutti i costi salvare il mondo e pulirlo da persone come quei ragazzi, almeno 3 anni prima dalla fama (se così potevo definirla). Quel giorno ero alle prese con una mia ennesima storia, io ero nella mia camera, seduta alla mia scrivania davanti al portatile acceso, il programma di scrittura aperto, il foglio per metà bianco ma pronto per essere riempito di parole. Ero bloccata su un punto, non era un blocco dello scrittore ma più un dubbio in cui cercai di valutare varie ipotesi.
La mia protagonista, Noemi, era alle prese con un appuntamento terribile, lei era timida, impacciata, la ragazza con cui aveva l'appuntamento invece era piuttosto egocentrica. Noemi era intrigata da quella ragazza, fisicamente parlando le piaceva molto, non era troppo alta, né troppo magra, i capelli erano lunghi e scuri, leggermente mossi, mentre gli occhi erano di un blu particolarmente chiaro, quasi sull'azzurro. Lei non riusciva a fare a meno di guardare i suoi occhi, c'era poco da fare, era cresciuta con Xena, e l'accoppiata "capelli scuri-occhi chiari" iniziò a farle effetto fin da piccola. L'unico problema era che per quanto le intrigasse quella ragazza, non le andava più di continuare a star seduta in quel bar a sentirla parlare di sé e della sua "fantastica" vita. Avevano pressoché la stessa età, solo pochi mesi di differenza, ma Sara (l'altra ragazza) viveva già da sola. Avevano entrambe 19 anni, Noemi viveva ancora con i suoi ansiosi genitori, Sara li salutò non appena finì la scuola. Per Sara era facile parlare, raccontare di come era andata via da casa dei suoi, spronò Noemi a fare lo stesso, ma lei aveva un altro carattere. Ognuno aveva i suoi tempi, le vite di entrambe erano diverse, e crebbero con pensieri differenti in testa. Erano esattamente gli opposti, ma c'era qualcosa in Sara che costringeva Noemi a rimanere seduta. Quei due occhi azzurri erano troppo poco per restare lì, ma il mio dubbio persisteva. Quelle due erano destinate a cambiare la vita dell'altra, ma mi mancava il punto centrale della situazione, la scintilla che avrebbe fatto partire i cuori di entrambe.
Ero concentrata al massimo, sapevo di avere una buona idea in mente ma non riuscii a farla uscire a causa di quei ragazzini. Li sentivo ridacchiare sotto la mia finestra, io vivevo al secondo piano di un palazzo che ne aveva cinque, ma nessuno si affacciò a parte me. Non sentii solo loro, sentii anche un miagolio strano, sembrava prima nervoso, poi debole, poi di nuovo nervoso. Non capivo cosa stesse succedendo ma mi misi le scarpe e corsi subito giù. Quei ragazzi erano tutti in cerchio, tutti inginocchiati attorno a quel povero gatto. In quattro lo tenevano fermo, il quinto, il più grande, aveva un taglierino tra le mani. Gridai subito contro quei ragazzini, alcuni si spaventarono e si tirarono su lasciando andare il gatto, quest'ultimo si sentì più libero, graffiò gli altri e scappò via sotto un'auto. Quei cinque se la presero con me, mi minacciarono di farmi fare la fine del gatto, ma la mia minaccia di chiamare la polizia funzionò meglio. Quei ragazzini decisero di andare via, ma non appena si allontanarono vidi una piccola pozza di sangue al centro della strada, lì dove torturarono quel povero gatto. Non appena la vidi mi guardai attorno, in cerca dell'animale ferito. Lo trovai dopo alcuni istanti, provò a scappare non appena mi avvicinai, ma svenne prima di riuscire ad uscire dal retro dell'auto. Io lo recuperai in fretta, lo coprii in una felpa e lo portai in auto dal veterinario più vicino, per fortuna ce n'era uno aperto 24 ore su 24.
«Che cosa gli hai fatto?» mi chiese la ragazza a cui affidai le cure di Ruby.
«Io nulla, direi di averlo salvato dalle grinfie di alcuni ragazzini.» le dissi.
Non sapevo se mi credesse o meno ma non ebbi il tempo di chiederglielo, portò il gatto in un'altra stanza e mi lasciò in sala d'attesa per più di mezz'ora. Quando finalmente la veterinaria tornò da me mi disse che il gatto stava bene, che avevano fermato il sangue, bendato l'orecchio tagliato e cucito il taglio sul petto. Mi disse che se volevo potevo portarla via, sempre che fossi riuscita a farla calmare. Ci riuscii dopo un po', dopo un bel po', purtroppo lei aveva paura di me, così come di qualsiasi essere umano. Riuscii a calmarla grazie anche all'aiuto della veterinaria e in poco tempo si abituò alla mia camera. I miei genitori non approvavano quella mia decisione, erano fieri di me per ciò che feci ma non volevano un animale in casa. Riuscii a convincerli solo quando gli dissi che mi sarei occupata io di tutto, e così feci. Quando andai via di casa, un paio di anni più tardi, lei mi seguì. Inizialmente era appunto diffidente, si teneva alla larga, ma poi capì che volevo solo prendermi cura di lei e divenne più dolce.
Dopo altri pochi grattini la misi giù, era il momento di mettersi al lavoro, ma lei non se la prese molto e anzi saltò di nuovo sulla scrivania e si acciambellò su un lato lasciando a me il controllo del portatile. Velocemente lo accesi e aprii il mio solito programma di scrittura, lì dove avevo salvato ogni mia più piccola e insignificante idea. L'unico posto ordinato della casa era quello, il mio studio, lì ci passavo la maggior parte del tempo, soprattutto la notte. Qualche mese prima conclusi una trilogia, scrivevo prevalentemente storie d'amore, mi piacevano anche temi thriller, fantasy, fantascientifici, e quant'altro. Il genere non era sempre definito in ciò che mi veniva in mente, il tema però era sempre più o meno incentrato in una storia d'amore. Probabilmente ero banale, una ragazza che scriveva storie d'amore non era poi tanto originale, ma a prescindere da tutto, le mie storie piacevano. Fu grazie a quella trilogia che riuscii ad andare via da casa dei miei genitori. Il primo libro non mi fruttò molto, la percentuale sugli incassi era piuttosto bassa per un esordiente, ma le vendite andarono bene. Il secondo libro mi fece guadagnare già un 20% in più, col terzo invece riuscii a farmi valere e a chiedere più del 60%. La casa editrice voleva guadagnarci, era logico, ma guadagnarono già abbastanza col mio primo libro. Il terzo lo pubblicai quell'anno, pochi mesi prima di quella sera, ed ero già al lavoro per una nuova storia. Non mi piacevano molto gli eventi atti a mettermi in mostra, per firmare copie dei miei libri. Capivo che quegli eventi erano organizzati solo per pubblicizzare il mio nome e le mie storie, ma molti mi chiedevano anche delle foto e io non mi sentivo molto a mio agio. Cercavo di non farlo notare, di non darlo a vedere, e in un certo senso ci riuscivo. Vedere tante persone in lunghe file solo per me, per delle mie creazioni, mi rendeva orgogliosa. E quel sentimento faceva passare in secondo piano l'imbarazzo. Col tempo divenni però più fredda, non con i miei lettori, ma con le persone in generale. Se qualcuno mi chiedeva un consiglio, un autografo, una foto o semplicemente di fare quattro chiacchiere io ero sempre disponibile, ma se era un appuntamento che cercavano allora non ero disponibile in alcun caso. Negli ultimi 15 anni della mia vita ci provai tanto, misi tutta me stessa in ogni relazione, anche nel più piccolo e innocente flirt, ma le cose non andarono mai bene. Di conseguenza decisi di non buttarmi più. Lo decisi definitivamente pochi mesi prima dell'uscita del mio terzo libro, quando ruppi con la mia ragazza, colei che mi rimase accanto ancor prima dell'inizio della mia carriera. Certo, anche in quello ero banale come le mie storie. Il primo pensiero di chiunque, dopo una rottura, era quello di non ricascarci più, di non avvicinarsi più a nessun essere umano e di chiudersi in sé stessi e nel proprio dolore. Il problema era quando ci si abituava a quel dolore, perché il dolore mentale non passava mai, si dissolveva semplicemente lasciando l'amaro in bocca per ciò che sarebbe potuto essere. Il dolore fisico era più facile da sopportare, preferivo soffrire per un mal di denti piuttosto che per il classico "mal d'amore".
«Non sono fatta per stare con qualcuno.» mi dicevo. «Conosco l'amore, conosco me stessa e ho un ottimo intuito, ma nelle relazioni di coppia faccio pena.» pensavo.
Certo, in 15 anni successero tante cose, conobbi tante persone, tutte diverse tra loro ma le storie che ebbi finirono tutte. Solo tre però furono piuttosto importanti: la prima a 18 anni con un ragazzo della mia età, che durò 3 anni, la seconda la ebbi a 23 anni con una ragazza poco più grande di me, che durò due anni intensi, la terza iniziò ai miei 27 anni e si concluse un mese prima del mio trentesimo compleanno, due mesi prima della conclusione della mia trilogia. In quel periodo non ero obbligata a scrivere, non avevo alcuna scadenza né alcun contratto. Mi impegnai molto con quella trilogia per far uscire un libro all'anno, l'ultimo uscì qualche mese prima, ma nella mia testa avevo così tante idee che mi ritrovavo sempre e comunque al PC a scrivere, o col cellulare in mano se non avevo il PC nelle vicinanze. La frase "scegli il lavoro che ami e non lavorerai neanche un giorno in tutta la tua vita" la credevo vera, io non mi sentivo stanca, né svuotata. Anche se fondamentalmente non era un lavoro così faticoso, e non era nemmeno così facile scegliere il lavoro dei propri sogni, non tutti erano così fortunati. Io mi sentivo carica, con una voglia matta di far uscire altrettante storie dalla mia testa. Peccato che il faccino dolce di Ruby non fu l'unica cosa a distrarmi quella notte. Mentre cercavo un'idea che mi ispirasse, tra quelle scritte sul portatile, sentii il campanello di casa suonare. Io mi voltai di scatto verso la porta aperta del mio studio, credevo quasi di essermi immaginata quel suono. Non aspettavo nessuno, era piuttosto tardi e chiunque mi conosceva sapeva che non amavo le visite a sorpresa. Chiedevo sempre a tutti di chiamarmi prima di venire a casa mia, ma quel giorno non lo fece nessuno. Senza troppa fretta mi alzai dalla mia confortevole sedia con le ruote, uscii dallo studio, e con calma raggiunsi l'ingresso. Lì fuori mi attendeva Giulia, la mia agente. Ci conoscevamo da oltre tre anni, fu lei a riuscire a far pubblicare la mia prima storia. Ci conoscemmo per scherzo, più che altro fui io a trovare il suo profilo su Instagram e a contattarla. Pubblicava varie foto di libri di scrittori emergenti che aveva aiutato, e io non avevo nulla da perdere. La contattai appunto per scherzo, senza pretendere nulla e solo perché la mia ultima ragazza mi spronò a farlo dopo aver letto quella mia prima storia. Giulia volle leggere parte della mia storia prima di accettare il lavoro, la fiducia era un pregio che non poteva permettersi, soprattutto in quel campo, ma dopo i primi capitoli si fidò e mi aiutò molto. Non la feci attendere troppo lì fuori, non appena vidi che era lei, aprii subito la porta. La salutai e le feci segno di entrare dentro. Lei era poco più bassa di me, pochi centimetri ma si notavano, aveva i capelli lunghi e scuri che portava sempre legati, e due occhi castani ma particolarmente espressivi. Il suo aspetto estetico non rispecchiava molto ciò che era internamente, amava i jeans strappati, le giacche di pelle e le t-shirt con i teschi, ascoltava sempre e solo musica rock. Aveva almeno 5 piercing visibili, 3 sulle orecchie, 2 sull'orecchio destro e 1 su quello sinistro, un altro piercing invece era sulla narice sinistra, era un semplice brillantino, e l'ultimo (visibile) lo aveva sul sopracciglio destro, ma non le dispiaceva far sapere agli altri di averne altri 3 più o meno nascosti. Lei era più grande di me di quasi 5 anni, era dolce, a tratti ingenua, ma molto gentile con chiunque le chiedeva una mano. Era carina, piuttosto spiritosa e spesso protettiva nei miei confronti. A volte capitava che la vedessi come una sorella, in altri momenti invece non mi sarebbe dispiaciuto vederla nuda. Quella era l'unica cosa a cui mi lasciavo andare, l'attrazione fisica, non mi avvicinavo nemmeno a pensieri tipo "ci starebbe bene la sua mano nella mia, la sua testa sulla mia spalla e il mio corpo a scaldare il suo in un semplice abbraccio", erano troppo carichi d'amore e io non volevo avventurarmi più in una relazione simile. Il sesso invece non mi preoccupava, in quegli ultimi 15 anni ebbi anche esperienze di solo sesso, persone incontrate per caso, l'attrazione fisica che scattava per entrambe e una camera d'hotel che ci attendeva chissà dove. Con Giulia scattò spesso la voglia di sfiorarle il viso delicatamente, baciarle le labbra con calma per poi farle perdere gradualmente il controllo. Le mie storie funzionavano in quel modo, mi concentravo molto sui gesti, gli sguardi e le parole di una persona, ignorando il posto in cui si trovavano i protagonisti. Le scene di sesso c'erano, le storie d'amore non erano fatte di sole parole o gesti dolci, anche se per alcuni erano così tanto dettagliate che mi prendevano per una pervertita. Il giudizio di quelle persone iniziai ad ignorarlo poco prima di pubblicare il secondo libro, inizialmente mi feci colpire da qualsiasi commento cattivo, ero quasi convinta a mollare la pubblicazione di quella seconda storia, ma Giulia e Rosa mi aiutarono a rialzarmi. Rosa era più sicura di Giulia, Rosa mi diceva che non dovevo pensare a nessuna di quelle persone perché parlavano solo per invidia, Giulia invece mi mostrava i commenti positivi dicendomi che non potevo piacere a tutti. Entrambe mi aiutarono a superare quel momento buio e a entrambe dovevo molto. Lentamente accompagnai Giulia nel mio studio, Ruby scese dalla scrivania e si fermò accanto alla porta non appena sentì il campanello suonare, e non appena entrammo dentro lei ci seguì fino alle poltrone. Su una di quelle ci saltò sopra Ruby, mentre io e Giulia ci sedemmo sul divano.
«Allora, cosa ci fai qui a quest'ora?» le chiesi piuttosto confusa.
«Tu hai detto di voler sapere tutto non appena lo scopro e quindi eccomi qui.» rispose lei con un piccolo sorriso. «Hai un firmacopie a fine mese.» mi spiegò.
«Così presto? Ma il libro è uscito solo un paio di mesi fa.» ribattei io piuttosto confusa.
«Appunto, siamo già in ritardo.» replicò lei lentamente.
«Non possiamo farlo il mese prossimo?» le chiesi lamentandomi non poco, ma sentii il campanello suonare e subito ci bloccammo entrambe.
«Aspettavi qualcuno?» domandò Giulia.
«In verità non aspettavo nemmeno te.» le dissi tirandomi lentamente su. «Torno subito.» aggiunsi allontanandomi velocemente da lei poiché il campanello suonò un altro paio di volte, quella persona era sicuramente più impaziente di Giulia.
Arrivai quasi subito all'ingresso e lì davanti alla mia porta di casa trovai lei, Rosa, la mia editor. Era decisamente più alta di Giulia, e anche poco più di me, visibilmente più matura e fisicamente più intrigante. Avevo una cotta per lei da quando la conobbi, da almeno tre anni, da quando andai a parlarle del mio primo libro. Ciò che provavo non poteva definirsi proprio "cotta", mentalmente non mi prendeva molto, era simpatica, testarda e tremendamente sicura di sé. Era dura da far sciogliere, in tanti anni non la vidi mai fuori dal suo ufficio, e quella visita mi colpì subito. La parte di me che provava qualcosa per lei erano i miei ormoni, non riuscivo mai ad essere pienamente lucida quando lei era nei dintorni. Volevo portarmela a letto, era ormai ovvio, sentivo una forte carica sessuale tra di noi, ma probabilmente era una cosa che sentivo solo io. La invitai subito ad entrare in casa, con fare quasi intimorito, lei entrò con passo deciso lasciandosi dietro una scia di profumo inebriante. Incrociò quasi subito lo sguardo con Giulia, che non appena sentì la voce di Rosa sbucò dal mio ufficio, e subito si salutarono.
«Anche tu qui?» chiese Rosa a Giulia non appena io chiusi la porta.
«Probabilmente siamo qui per lo stesso motivo.» rispose Giulia con un sorriso.
«Per mandare questa ragazzina al firmacopie di Torino?» ipotizzò Rosa con fare più deciso.
«Precisamente.» concordò Giulia.
«Oh andiamo, non potete costringermi.» protestai io debolmente.
«È una cosa che devi fare, non puoi evitarla.» ribatté Rosa voltandosi verso di me.
«Ma perché? Aspettiamo un altro po', lasciatemi rilassare.» continuai io lentamente provando ad impietosire una delle due, ma era difficile.
«Suvvia, non ti piace Torino?» mi chiese Rosa con un sorrisetto.
«Non mi interessa particolarmente.» risposi io in tono fermo.
«Allora pensa alla tappa di Milano.» continuò lei.
«Milano?» ripetei senza capire, odiavo quando programmavano cose di quel tipo parlandomene all'ultimo.
«Si, ci andremo la settimana dopo la tappa di Torino.» mi spiegò Rosa con calma.
«Ci andremo?» continuai io sempre più confusa.
«Si, io verrò con te.» rispose lei con quel sorrisetto, sembrava divertirsi molto a vedermi in difficoltà.
«Per controllarmi?» le chiesi in tono nervoso.
«Non esattamente, mi fido di te, ma qualcuno deve pur accompagnarti.» contestò lei poco convinta.
«Non sono una bambina.» ribattei.
«Il tuo faccino dice il contrario.» mi provocò lei sfiorandomi una guancia con l'indice ben teso.
Il suo sguardo era intenso, ben fermo verso il mio, le sue labbra erano inarcate leggermente in un sorrisetto malizioso. I miei ormoni erano già partiti per la tangente, la gola era secca, la sentivo troppo arida per parlare. Lei mi fece l'occhiolino, notò l'imbarazzo farsi strada velocemente sul mio viso e allargò di più il suo sorriso. Io abbassai il mio sguardo per un impercettibile secondo sulle sue labbra, poi provai a riprendere il controllo del mio corpo e feci un passo indietro.
«Fanculo, io non ci vado!» dissi togliendomi la sua mano dal viso e allontanandomi da entrambe, tornai nel mio studio e mi sedetti sulla mia sedia piuttosto comoda.
«Andiamo, bimba, mi dispiace.» commentò Rosa venendomi dietro.
«Chiamarmi "bimba" non mi convincerà.» replicai nervosamente, non appena mi sedetti sulla mia sedia.
«D'accordo, d'accordo. Fallo per me, abbiamo già deciso le date, andiamo almeno a questa di Torino. Se la cosa non ti convincerà, o ti farà sentire a disagio, toglieremo di mezzo le altre.» continuò lei fermandosi accanto alla mia scrivania.
Lei mi guardava con uno sguardo che sembrava davvero dispiaciuto, quasi da cucciolo bastonato, credevo fosse brava a recitare ma non sapevo quanto avessi ragione. L'unica cosa che sapevo era che essere nella stessa stanza con quelle due mi rendeva nervosa, mi ero sempre sentita in quel modo in mezzo a quelle due. Entrambe erano in grado di far partire i miei ormoni, e in quel momento non lo sapevo, ma entro fine mese sarei andata a letto con entrambe.

Di notte.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora