Capitolo 3 - Noi pazzoidi ex.

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Mi avviai verso i bagni senza ascoltare nessuno, senza pensare a mia madre che mi chiedeva di tornare indietro. Non ce la facevo. Avevo un dannato nodo alla gola che non mi permetteva di respirare, sapevo quale era la fase successiva. Il pianto, c'era quello dopo il nodo alla gola. Ma non potevo farlo, non lì, non davanti a quella stronza di mia cugina, non le avrei dato quella soddisfazione. Velocemente mi chiusi di nuovo dentro il bagno, mi cambiai in fretta e uscii pochi minuti dopo pronta per salire sulla mia moto. Prima di andare via però tornai in sala, tornai lì solo per salutare i miei nonni, anche se loro non erano molto contenti.
«Perché ti sei cambiata? Eri così carina prima.» commentò mia nonna alludendo al fatto che in quel momento ero probabilmente un cesso, ma non le diedi molto peso, le sue parole erano innocenti, non come quelle di Martina.
«Mi sono cambiata perché sto andando via.» le spiegai con calma.
«Ma come? Prima della torta?» mi chiese lei un po' delusa.
«Eh si, ho un impegno urgente.» le dissi prima di lasciarle un bacio sulla guancia.
Mi dispiaceva andare via così, tra l'altro credevo che alla fine avrebbero saputo il perché della mia fuga, ma volevo lasciare a loro la scelta di pensare se la loro nipote era cogliona o meno. Non appena misi piede fuori dalla sala fui subito seguita da mia madre che continuava a chiedermi di tornare dentro.
«Per oggi ho già dato, non reggo un secondo di più qui.» le dissi senza fermarmi.
«Fallo per tua nonna, ci teneva tanto ad avere tutti i parenti riuniti una volta ogni tanto.» ribatté lei provando a convincermi, ma con quella frase non ci sarebbe mai riuscita.
«Una volta ogni tanto? C'è una una festa ogni mese, probabilmente anche più di una, questa famiglia si riunisce per ogni minima cosa.» protestai fermandomi davanti all'ingresso e voltandomi verso di lei.
«Beh dovresti ringraziare che siamo così, altre famiglie non sono tanto unite.» continuò lei proteggendo fino alla morte la sua famiglia.
«A me non importa come siete, tanto io non ne faccio parte.» ribattei lentamente, in quella famiglia mi sentii quasi sempre solo un numero.
«Ma che diavolo stai dicendo? Tu ne fai parte eccome.» commentò lei piuttosto confusa, ma io non avevo voglia di discutere.
«No, grazie, capisco quando non sono gradita nella vita di qualcuno.» dissi uscendo fuori e camminando su quel terriccio, avviandomi poi verso la mia moto.
Salutai mia madre e non l'ascoltai più ribattere nulla, aveva altro da dire, lo sapevo, ma ero certa che lo avrebbe fatto quella sera. In quel momento però avevo altro da ascoltare.
«Ehi, aspetta...» mi disse una voce maschile alle mie spalle, ma io mi fermai solo quando arrivai vicino alla mia moto.
«Oh ciao, cosa ci fai qui?» chiesi a quel ragazzo, Davide.
«Volevo chiederti se potevi darmi un passaggio.» rispose lui con un piccolo sorriso.
«Un passaggio?» continuai senza capire.
«Si, non mi va più molto di stare qui.» commentò lui portandosi una mano dietro la nuca, sembrava imbarazzato.
«Come mai?» domandai guardandolo con fare confuso.
«Per quello che hai detto.» disse lui, ma io non afferrai subito il concetto, mi sembrava strano.
«Non capisco.» continuai lentamente.
«Non voglio perdere il mio tempo dietro a qualcuno che vuole solo usarmi, e tu hai detto che Martina è così.» mi spiegò lui.
«Si, magari l'ho detto, ma tu sai che devi informarti bene sulle cose prima di prendere decisioni affrettate?» gli chiesi.
Non che le cose che gli dissi fossero false, ma non mi piacevano le persone che davano per vere qualsiasi cosa che sentivano senza accertarsi della realtà dei fatti.
«Certo, infatti ho intenzione di approfondire questa cosa.» rispose lui piuttosto convinto.
«E come hai intenzione di fare?» continuai con fare lievemente sarcastico.
«Martina non mi dirà mai la verità, ma ci siamo conosciuti a causa di alcuni amici in comune e posso chiedere a loro.» disse con un sorriso appena accennato, non mi sembrava così dispiaciuto di ciò che avrebbe potuto scoprire.
«Beh, spero che quei ragazzi ti dicano la verità, io adesso ti saluto.» dissi mettendomi in sella alla mia moto.
«No dai, perché non torni di là?» continuò lui che non sembrava proprio voler mollare la presa.
«Dopo tutto quello che la tua ragazza ha detto? Perché dovrei?» gli chiesi in tono nervoso.
«Perché... Insomma, tu sei carina e... Cioè...» borbottò lui che non sapeva bene come dire ciò che aveva in mente, ma io non volevo ascoltarlo.
«Ti fermo subito. Qualsiasi cosa tu voglia dire, tienila per te. Martina mi sta ampiamente sulle scatole ma non ho intenzione di fare nulla col suo ragazzo, anche solo parlare con te mi fa apparire una poco di buono, quindi torna dentro e calma gli eventuali scleri della principessina.» gli dissi tenendo lo sguardo fermo sul suo viso. «Buona fortuna.» aggiunsi prima di indossare il casco.
Velocemente inserii la chiave, la girai e dopo aver messo in moto partii e mi allontanai da lì. Mia madre non si sarebbe dovuta preoccupare dell'andata, era del ritorno a cui avrebbe dovuto pensare. Quando andai verso il ristorante ero lucida, pienamente in forma per fare ciò che volevo. In quel momento no, in quel momento ero nervosa e corsi molto più veloce. Andai ben oltre i limiti di velocità e un paio di volte rischiai di fare un frontale a causa di un sorpasso di troppo. Non ero in me, tutte quelle moine, quelle dimostrazioni di affetto che io non potevo più fare mi davano sui nervi. Ero nervosa perché non potevo fare lo stesso, invidiavo ognuno di quelli che in quel momento avevano accanto la persona che amavano. Ma in fondo la colpa era solo mia, fui io a rovinare tutto, se mi fossi comportata diversamente le cose non sarebbero andate in quel modo, o forse sarebbe finita ugualmente. Non lo sapevo, l'unica cosa certa era che pensavo troppo, la mia mente lavorava troppo anche quando non doveva, anche in quel momento. Ma non funzionava affatto bene. Pensavo alla mia ex, ancora, erano 5 mesi che non facevo altro, e non pensai minimamente al semaforo rosso che superai a gran velocità. Me ne accorsi solo quando un'auto mi suonò forte il clacson, fu solo in quel momento che mi accorsi di quanto stavo andando veloce, di quanto ero stupida. Successe altre due volte che mi sentii in quel modo sulla mia moto. La prima fu quando feci fare un giro a Sara, la mia ex. Lei aveva uno scooter, quindi le due ruote non le dispiacevano, ma io quel giorno andai troppo veloce. Sara si strinse a me, mi chiese di andare piano ma io volevo mostrarle che non aveva nulla da temere, che riuscivo a gestirla, ma fui una stupida. Lei continuava a dirmi che dovevo rallentare e non appena mi fermai ad un semaforo, lei decise di scendere. Io non capii cosa le prendesse, ma lei si tolse il casco e mi mostrò il suo viso rigato dalle lacrime. Quello fu probabilmente il giorno più brutto della mia vita, ancora più brutto di quando ci lasciammo, poiché in quel momento la feci male con la mia pazzia. In quel momento mi sentii una completa idiota. Vedendo lei in quello stato spensi il motore, lasciai la moto su un lato della strada vicino al marciapiede e mi avvicinai subito a lei per abbracciarla, peccato che lei mi respinse più volte.
«Sei una stronza.» mi disse con fare piuttosto nervoso.
«Mi dispiace, non pensavo ti stessi spaventando tanto.» commentai cercando di tenere un tono calmo, ma mi sentivo una merda.
«Ti ho chiesto più volte di rallentare.» ribatté lei con quelle lacrime che continuarono ad uscire.
«Lo so, ma non pensavo ti facesse stare così.» dissi continuando a scusarmi.
Discutemmo un po' su quella cosa, lei aveva ragione, avevo esagerato. Con calma l'accompagnai in un bar, bevemmo qualcosa per calmarci e lei dopo un po' mi disse che era preoccupata per me.
«Per quale motivo?» le chiesi ingenuamente.
«Perché tu non capisci quando una situazione è pericolosa, quando superi un limite, e ho paura che con la moto tu possa rischiare sul serio di fare una cazzata.» mi spiegò lei con gli occhi lucidi.
Era sinceramente preoccupata per me, preoccupata di ciò che mi sarebbe potuto succedere se avessi ignorato chiunque come al solito. Nel corso della mia vita mi capitò spesso di slogarmi un braccio o una gamba, mi piaceva il parkour, mi piacevano gli sport estremi, mi piaceva correre da una parte all'altra e saltare sperando di raggiungere una determinata postazione, ma non sempre ci riuscivo. In casa saltavo da un divano all'altro, a volte in salotto portavo le sedie lontane dal tavolo e mi costruivo un percorso tutto mio. Per i miei genitori fui un'ansia continua, ogni volta che sentivano una sedia cadere a terra o anche una poltrona, si precipitavano in salotto pregando che non mi fossi rotta niente. Il giorno in cui mi andò peggio fu quando avevo 10 anni, qualche mese dopo aver litigato con quel ragazzino. Mio padre era in camera a riposare un po' dopo il lavoro, mia madre era in cucina che preparava la cena e mi chiese di aiutarla ad apparecchiare la tavola. Io mi annoiavo, la reputavo una cosa noiosa, così lasciai tutto lì al centro del tavolo e spostai silenziosamente ogni sedia, peccato che quel giorno fui più veloce del solito e meno attenta a come le posizionavo. Di solito le mettevo in modo che se fossero cadute non avrebbero toccato nulla, quel giorno invece ne misi una troppo vicino al tavolo, e fu proprio cadendo da quella sedia che mi feci male. Mi coordinai di nuovo male, misi troppo peso su un lato della sedia e persi l'equilibrio. Caddi col corpo in avanti, sbattei con la testa sullo spigolo del tavolo e caddi a terra poco prima della sedia. Mia madre si spaventò un sacco quel giorno, quando entrò in salotto mi vide a terra che faticavo a rialzarmi, di solito anche con un braccio o una gamba dolorante mi tiravo su, ma in quel momento sentivo più male. Avevo del sangue che mi scendeva veloce da uno spacco sul sopracciglio, e un'infermiera mi disse anche che fui fortunata. Avrei potuto avere un trauma cranico serio, o avrei potuto perdere l'occhio sinistro. Lei mi fece spaventare più di quanto non fecero le lacrime di mia madre. Fu da quel giorno che smisi di saltare sulle sedie, mi calmai anche un po', ma di tanto in tanto me ne uscivo con cose pericolose che mettevano solo a rischio la mia vita. Quella moto fu una di quelle, ma quando vidi Sara tanto spaventata smisi di correre veloce, prima di lasciarci almeno. Quando smettemmo di sentirci mi sentii piuttosto male, sarei tornata indietro miliardi di volte per lei, ma le storie d'amore non funzionavano così, le cose si dovevano volere in due e lei non se la sentiva. Era giusto, non le davo alcuna colpa, ma io il giorno del mio trentesimo compleanno lo trascorsi in ospedale. Poco dopo il nostro saluto, quando mi fece gli auguri, io scesi giù e andai a fare un giro in moto, quella fu la decisione peggiore che potessi prendere. Era ancora giorno, erano le 14:00 quando salii sulla mia moto, ma una mezz'oretta più tardi fui trasportata in ospedale da un'ambulanza. Sara non lo sapeva, nemmeno la mia famiglia lo sapeva, l'unica persona che sapeva tutto era Giulia, anche se successivamente lo venne a sapere anche Rosa, quelle due parlavano molto. Giulia divenne in fretta una persona importante nella mia vita, non era solo la mia agente, ma divenne presto una buona amica e anche qualcosa di più. Con lei potevo confidarmi su tutto, potevo dirle tutto ciò che mi passava per la mente, e fu quel giorno che le confessai che non avevo più voglia di vivere.
«Che diavolo stai dicendo?» mi chiese con fare nervoso mentre mi teneva stretta una mano.
«Che senso ha continuare senza Sara?» dissi provando a trattenere le lacrime.
«Non c'è mica solo lei in questo mondo?» ribatté Giulia velocemente.
«Lo so, ma con lei era tutto stupendo, era perfetta, adesso dovrò ricominciare tutto da capo e non mi va.» commentai io che sentivo il dolore al petto più forte di qualsiasi cosa anche in quel momento.
«Tu adesso devi solo pensare a riprenderti, non devi cercare nessuno. Qualcuno magari arriverà quando sarai pronta, ma per il momento non devi pensarci.» ribatté lei dolcemente. «Prenditi il tuo tempo, viviti questo dolore, incazzati, urla se vuoi, ma smettila di correre come una matta su quella moto.» aggiunse con un tono leggermente critico.
Anche lei mi disse che dovevo andare più piano, mi minacciò anche dicendomi che se non avessi trattato bene quella "bestiolina" lei me l'avrebbe portata via. Anche Giulia amava le moto, e con l'incidente che ebbi non ne uscì solo con qualche graffio. Ci vollero un paio di settimane per me, per riprendermi dagli acciacchi che sentivo, e tanti soldi per aggiustare la moto e renderla come nuova. Fu a Giulia che pensai quando quel tipo in auto mi suonò il clacson. Le promisi che sarei andata piano, che non avrei più fatto casini simili, ma non mantenni la mia promessa. La mia mente aveva vita propria, non controllavo i miei pensieri, non ci riuscivo, ma dopo aver superato l'incrocio e aver evitato quell'auto andai più piano. Non ero molto distante da casa mia, ormai ero tornata in città, e dopo meno di un chilometro arrivai a destinazione. Sana e salva, più salva che sana. Lasciai la mia moto al solito posto, nel breve corridoio oltre il cancello che portava al mio portone di casa. Salii su in casa, chiusi la porta alle mie spalle e mi avviai con fare incerto verso la mia camera. Mi tolsi lo zaino dalle spalle, la giacca, subito dopo anche le scarpe e con calma mi buttai sul letto. Sentivo la testa pesante, gli occhi lucidi, e avevo solo voglia di stare distesa senza ascoltare niente e nessuno. Ovviamente però il cane dei vicini, il traffico poco distante dalla finestra della mia camera e gli inquilini del piano sopra al mio non erano d'accordo. Il cane abbaiava con fare incessante, quei geni che erano imbottigliati nel traffico suonavano il clacson uno dopo l'altro credendo che tutto quel casino li avrebbe fatti muovere più velocemente, e i miei vicini al piano di sopra si rompevano le corna a vicenda come ogni santissimo giorno. Ecco perché adoravo la notte, perché in quel momento nessuno era sveglio, o perlomeno chi aveva gli occhi aperti non faceva un casino immane. Io ero stanca, stufa di quei rumori continui, così mi allungai verso un piccolo MP3 che avevo sul comodino, lo collegai a delle casse bluetooth che misi su delle mensole lì in camera e lasciai partire la mia playlist. Non sapevo se ci fossero ancora persone che usavano gli MP3, con l'arrivo di Spotify finirono per perdersi un sacco di cose belle, ma io lo usavo ancora molto spesso, soprattutto in casa. La musica mi aiutò a rilassarmi, le canzoni sovrastavano il suono fastidioso del traffico, l'abbaiare del cane e lo sbraitare dei vicini, però non poté fare nulla col cellulare che vibrò qualche minuto più tardi in una tasca dei miei pantaloni. Avrei dovuto toglierlo da lì, avrei dovuto infilarlo nello zaino insieme al vestito e alle scarpe, in quel caso non lo avrei sentito e avrei potuto evitare quella telefonata. Volendo avrei potuto ugualmente farlo, avrei potuto evitare di rispondere anche se sapevo che qualcuno mi stava chiamando, ma a lei non potevo farlo, era Giulia. Abbassai un po' il volume della musica e dopo essermi distesa al centro del letto a pancia in su risposi al telefono.
«Ehi, ciao...» dissi provando ad avere un tono normale.
«Ciao Andrea, sei per caso in discoteca?» mi chiese lei in tono ironico, ma io in quel momento non ne capii il motivo.
«Cosa? No, assolutamente, senti la musica?» domandai io con fare confuso, in fondo abbassai il volume proprio per quello.
«In verità la sentivo meglio prima.» mi disse lei con quel tono per metà divertito.
«Prima?» continuai io.
«Sono qui fuori, potresti aprirmi?» mi spiegò lei.
«Sei fuori casa mia?» le chiesi mettendomi seduta al centro del letto e dopo quella mia domanda sentii il campanello suonare.
«Questo risponde alla tua domanda?» domandò lei con ancora quel tono.
«Cosa ci fa qui?» domandai senza capire.
«Possiamo parlare guardandoci negli occhi? Già che sono qui almeno non farmi parlare sul tuo pianerottolo.» commentò lei con fare più serio.
«Non mi va molto di avere visite oggi.» dissi debolmente.
«Non fa niente, non ne avrai, io non sono "una visita".»  ribatté lei in tono fermo.
«Va bene, va bene, dammi un secondo.» dissi tirandomi su e uscendo lentamente da quella stanza.
La musica continuava ad andare, non era forte come poco prima e infatti i vicini sopra tornai a sentirli. Inizialmente era così forte che non sentii nemmeno il campanello, chissà da quanto era lì fuori Giulia.
«Ehi, ora puoi dirmi cosa ci fai qui?» le chiesi non appena aprii la porta e incrociai il suo sguardo.
«Sono qui per controllare che tu non faccia più cazzate.» disse lei lentamente entrando in casa e guardandosi attorno.
«Cerchi qualcosa?» continuai chiudendo la porta non appena si allontanò dall'ingresso.
«Si, dove tieni le chiavi della moto?» mi chiese lei notando poco dopo un piccolo mobiletto alto quasi un metro su cui tenevo poggiate le chiavi di casa, della moto, e anche svariate bollette che dovevo ancora pagare. «Ah eccole!» esclamò avvicinandosi lentamente lì.
Lei era più vicina, le mancavano circa tre passi, a me ne mancavano il doppio, ma lei camminò e io corsi non appena capii cosa voleva fare. Giulia però riuscì a prendere quelle chiavi e a portare quella mano dietro la sua schiena prima che riuscissi ad avvicinarmi a lei.
«Dai, Giulia, ridammele.» le dissi fermandomi vicinissima al suo corpo.
«No, tesoro, la bestiolina viene via con me.» ribatté lei con un tono duro.
«Oh andiamo, non ho fatto nulla.» protestai io, ma sapevo che non era vero.
«Solo perché quel tipo all'incrocio non è partito in quarta, altrimenti probabilmente non saresti nemmeno qui.» si lamentò lei con fare piuttosto nervoso, aveva persino gli occhi lucidi.
«Mi hai vista?» le chiesi facendo un passo indietro.
«Si, ero in un negozio con la mia ragazza quando ho sentito tutto.» mi spiegò lei, e in quel momento sentii uno strano fastidio alla bocca dello stomaco.
Per la prima volta provai una sorta di gelosia nei confronti di Giulia e la sua ragazza, sapevo già che lei era fidanzata, conoscevo anche quella ragazza. Si chiamava Maria, aveva la mia stessa età ed era anche piuttosto simpatica, ma il tutto si fermava lì. La conobbi anni prima a causa di Giulia che passò molto tempo con me, e di questo la sua ragazza era gelosa. Ma passammo molto tempo insieme solo perché Giulia voleva leggere le mie storie, era interessata a ciò che usciva dalla mia testa e voleva capire quante altre storie avrei potuto sviluppare. Maria era follemente gelosa, volle conoscermi per capire se poteva esserci qualcosa tra di noi ma io le assicurai che non c'era nulla. In quel periodo anche io avevo una ragazza, quindi tutto sommato lei poteva definirsi al sicuro, ma non si tranquillizzò per nulla. Così per far stare più tranquilla la sua ragazza, mandavo di tanto in tanto delle storie a metà a Giulia, gliele mandavo via mail, il tutto solo per non farle passare tanto tempo con me, ma quello non funzionò dato che in quel momento mollò la sua ragazza chissà dove solo per togliermi le chiavi della moto.
«Ti ho riconosciuta subito.» continuò lei. «Ti avevo chiesto di smetterla di correre tanto, vuoi tornare in ospedale? Non sei stata abbastanza male?» mi sgridò lei facendomi tornare il nodo alla gola.
«Mi dispiace...» dissi avviandomi con calma verso la mia stanza, avevo bisogno di sdraiarmi ancora. «Ma io sto ancora male.» aggiunsi entrando nella mia camera con lei alle spalle.
«In che senso? Che cos'hai?» mi chiese non appena mi lasciai cadere di nuovo sul mio letto.
Mi distesi a pancia in su sul lato destro del letto, e senza accorgermene mi persi di nuovo nei miei pensieri. Mi persi in ciò che disse Martina, nei gesti e nelle frasi dolci che durante quel pranzo riempirono la mia testa. Ero così concentrata in ciò che mi passava per la mente che non mi accorsi nemmeno di Giulia che salì sul letto, al lato opposto al mio, né di una canzone che finì e di un'altra che ricominciò poco dopo. Ma a causa di Giulia uscii dai miei pensieri e mi accorsi di entrambe le cose.
«Andrea, non starai ancora pensando alla tua ex?» mi chiese lei in tono basso e piuttosto dolce.
Lei non salì semplicemente sul mio letto, si tolse anche le scarpe, si distese su un fianco e si voltò verso di me. Non era la prima volta che lo faceva, ormai lì era di casa, quindi sapeva che non mi dava alcun fastidio. In quel momento però portò una mano al lato del mio viso, mi accarezzò piano una guancia e mi costrinse a voltarmi verso di lei. In quel momento capì che era così, che pensavo ancora a Sara, e probabilmente pensò che ero una stupida.

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