3. Mon amour

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Romeo si allontanò di scatto da quel ragazzo, che si stava rivelando essere uno stronzo, evitando di capitombolare nuovamente a terra.

Ma quel Julio era uno di quegli stronzi che sapevano di essere piacenti, che sfruttavano il loro aspetto fisico a loro vantaggio e che gli facevano salire il livello di irritazione.

Romeo era talmente irritato, al momento, che gli pizzicava la pelle. Stava provando la stessa sensazione di fastidio cutaneo che aveva avvertito quando aveva preso i pidocchi in prima elementare.

Ricordava ancora la minaccia di sua nonna Maria, con il rasoio di suo nonno Alfonso stretto in una mano e lo sguardo da serial killer di pidocchi: «T'agg taglià li capigli, Romé»

«Ma tu si pazz', nonna!» aveva replicato lui, a soli sei anni, scappando via ed andandosi a nascondere dietro al divano.

Beh, ora Romeo non aveva più i pidocchi e non aveva davanti quella pazza di sua nonna, ma era irritato e il suo animo da napoletano che sventolava, orgoglioso, la bandiera tricolore con in mano un vassoio di sfogliatelle gli si stava agitando nel petto.

«Non era mia intenzione voler cadere ai tuoi piedi, magari la prossima volta stai più attento a dove lasci le tue cose», rispose, piccato, ed aggiustandosi nervosamente gli occhiali sul naso.

Il Romeo impacciato ed imbarazzato si era andato a nascondere in un angolo, perché con quell'esemplare di spagnolo bellissimo ma stronzissimo doveva entrare per forza in gioco la sua parte più guerriera.

Si immaginò con un'armatura scintillante da gladiatore, pronto a combattere nell'arena antica di Octavius Quartio a Pompei contro un... un torero. 

Julio - il caso era stato davvero un bastardo ironico - inclinò il capo di lato, le labbra carnose arricciate verso destra - gli si formavano un paio di piegoline fastidiosamente graziose all'angolo delle labbra quando sogghignava in quel modo -, aveva gli occhi scintillanti di sfida e squadrava Romeo come di solito si fissava uno sfidante sul ring o sul campo di battaglia di un'arena.

«Io lascerò le mie cose sempre tra i piedi, ma è anche vero che non hai un briciolo di equilibrio, Romeo. Dovresti irrobustire un po' quei muscoli delle gambe, evitando di mangiare tutti i carboidrati che siete abituati a mangiare voi italiani e passando alle proteine. Non si può vivere di pasta, pane e pizza. Siamo quello che mangiamo», concluse il suo discorso da personal trainer, incrociando le braccia al petto in modo da poter flettere i suoi bicipiti pompati con le proteine.

Se fosse stato umanamente possibile, Romeo in quel momento starebbe fumando dalle orecchie e dal naso proprio come un toro e non come un gladiatore.

Difficilmente perdeva la pazienza; negli anni aveva avuto a che fare con parecchi turisti piantagrane, ma quel ragazzo... quel ragazzo aveva definitivamente stuzzicato il napoletano patriottico che c'era in lui.

E poi, chi aveva deciso che non si poteva vivere, mangiando solo pasta, pane e pizza?

Lui viveva di pasta, pane, pizza e delle polpette al sugo di sua nonna.

Quelle erano le quattro P sacre di Romeo e non andavano toccate, come i presepi a San Gregorio Armeno.

Forse, allora, erano cinque P sacre.

«Siamo quello che mangiamo?» ripeté in spagnolo. «Azz, allora c te magnat' p'essr accussì strunz?» aggiunse in napoletano, senza riuscire a frenare la lingua.

Stupido mocciosetto di scarsi vent'anni.

Oddio, sono proprio un trentaquattrenne futuro professore immaturo. Sto litigando con un ragazzino.

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