6. Povero gabbiano

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«Allora, sei pronto?» domandò Emma a Romeo, osservandolo attraverso lo specchio del piccolo bagno, mentre si aggiustava per la centesima volta il colletto della polo bianca che aveva deciso di indossare per quel suo primo giorno di lavoro alla Escuela Secundaria de Madrid.

Solitamente, Romeo non era quel genere di uomo che stava sempre attento a ciò che indossava. A Romeo non interessava sfoggiare il cavallino della Ralph Lauren ricamato sulla camicia, ne la cinta di Gucci o quantomeno le scarpe in pelle italiana.

Romeo era abituato alla comodità e ad andare in giro per Pompei con le sue fedeli e consumate scarpe da trekking, t-shirt scolorite dal sole e dai troppi lavaggi e comodi pantaloni cargo perché avere tante tasche era sempre utile.

Certo, quelle rare volte in cui usciva per socializzare con il resto del mondo indossava i suoi vestiti buoni, come li chiamava sua nonna Maria, la quale aveva sempre pronta una borsa con un pigiama nuovo e delle ciabatte buone nel caso in cui si fosse ritrovava ricoverata in ospedale. Romeo ogni volta che ci pensava o vedeva quella borsa nel suo armadio roteava gli occhi al cielo.

Per quel suo primo giorno di lavoro aveva scartato in partenza la camicia perché faceva troppo caldo e Romeo diventava insofferente e di cattivo umore quando aveva i vestiti appiccicati addosso. Quindi, aveva deciso di optare per una polo, scelta appositamente di colore bianco perché nel caso in cui - molto probabilmente, anzi, sicuramente - avesse sudato non si sarebbe notata la sua immancabile ascella pezzata.

«No, assolutamente no. Ma c si pazz'? Mi sto per cagare addosso», rispose Romeo, dimenticando completamente la finezza, esternando tutta l'ansia che lo stava attanagliando.

Si strofinò i palmi sudati contro il tessuto dei pantaloni blu scuro che aveva indossato sotto la polo, poi si diede un'ultima occhiata allo specchio, aggiustandosi gli occhiali sul naso in quel suo usuale tic nervoso, prima di voltarsi verso la sua migliore amica/coinquilina. Emma lo stava fissando con un sopracciglio inarcato mentre grattava il capo di Dolly, che sonnecchiava, placida, accucciata nella sua mano.

«Stai esagerando, Romé. Quei ragazzini puzzolenti e brufolosi rimarranno tutti incantati da te che spiegherai loro come i Romani abbiano controllato tutta la loro carissima Penisola Iberica nel... Aspé, in quale anno è successo?»

Romeo sospirò. «Nel 206 a.C.».

Emma gli sorrise e gli fece un occhiolino. «Ecco, vedi? Sei preparato. Ti stavo mettendo alla prova».

Romeo guardò la sua amica con occhi carichi di condiscendenza. «Sì, certo. Di sicuro mi ameranno dopo aver spiegato loro, al nostro primo incontro, come i Romani abbiano controllato il loro Paese dall'inizio della seconda guerra punica fino al V secolo e che, al momento, mi sta pagando pure lo stipendio».

Emma scosse la mano con cui non stava sorreggendo Dolly. «E quindi? Tanto se non glielo spieghi oggi, dovrai farlo comunque tra qualche mese, no?»

«Emma, sei pessima a tranquillizzare le persone», replicò Romeo, dando poi un'occhiata al suo orologio da polso per constatare che nel giro di pochi minuti sarebbe dovuto uscire per andare a prendere la metro.

Gesù Cristo mio, per favore, non farmi scontrare di nuovo con Julio perché, altrimenti, inizierò a prendere l'abitudine di girare con un'arma nella borsa.

Poi, si ritrovò a pensare al pensiero appena esposto a Gesù Cristo nella sua mente e, mentre si metteva in spalla la sua tracolla da lavoro e il cellulare in tasca, ritrattò quello che aveva pensato pochi attimi prima.

Ovviamente, Gesù, qui c'è da leggere tra le righe il mio spiccato senso dell'umorismo perché non andrei mai in giro con un'arma. In quel caso, poi, mi ucciderebbe mia nonna. Però, Julio non farmelo incontrare lo stesso. Grazie, si n'amico.

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