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LEONOR

  «Tempo scaduto Gareth.»

   Queste parole mi risuonano in testa mentre le ombre del responsabile della sicurezza di Gareth risucchiano entrambi in un vortice dal sentore di putrido e un pungente fumo mi entra nelle narici.

Lui stesso si ripete con voce diversa. Il tono è diverso. Più pensieroso e... triste.

   Inspiro. Tutto d'un tratto mi manca l'aria. Attorno a noi si fa buio, l'oscurità inghiotte Gareth e le sue zanne in un sol boccone e mi trascina nell'occhio di un ciclone pieno di spire e catrame denso.

   Avverto le dita del ragazzo ancorarmi a lui, è teso come le corde di una liuba.

   Pochi istanti, è il tempo sufficiente perché i miei polmoni ardano in cerca di ossigeno. Risbuchiamo fuori da quell'insolita nebbia scura, come uno stormo di corvi questa freme intorno a noi e si spande nell'ambiente. Poi lo stormo si disfa e di esso rimangono soltanto sottili tracce come quelle che lasciano le nuvole in cielo dopo una schiarita.

   Joy – così ricordo che lo ha chiamato Gareth – mi caccia via e io finisco per ruzzolare su un lucido pavimento. I miei palmi ci sfregano sopra con forza, la pelle tira lungo la superficie e io gemo per il solito dolore che la ferita alla coscia mi manda. Una fitta tremenda che ancora una volta mi fa rimpiangere di non avere con me uno degli unguenti di Petunia. Ma questo non è il momento giusto per piangersi addosso. Cerco di alzarmi sui gomiti, dietro di me Joy cammina a piedi nudi su queste piastrelle di marmo chiaro dalle nervature verdastre, i suoi abiti sono privi di lacerazioni. È uscuto indenne dal combattimento. È preciso ed elegante, nel vestirsi, nel muoversi L'esatto opposto di Gareth.

   «Resta a terra» mi ordina e io rispondo con un lamento, e ovviamente non obbedisco. Lo ritrovo a fianco che mi guarda dall'alto in basso, un'espressione che mi restituisce gelidi ammonimenti.

Faccio per mettermi in piedi: con un ginocchio mi puntello e faccio forza per trascinare la gamba ferita, ma Joy mi afferra per la nuca e mi sbatte a terra. «Resta immobile a terra, e non dovrai preoccuparti.»

   Preoccuparmi? Temo di aver smesso di preoccuparmi molto tempo fa, e poi... «Di cosa dovrei preoccuparmi, esattamente?»

   Lui schiocca la lingua, e ricaccia la mia faccia sul pavimento.

   «Se tieni alla tua vita, rimani giù e fai silenzio.»

   Mi mordo la lingua: non è molto diverso da Gareth, dopotutto. Poco fa voleva uccidermi, adesso invece elargisce consigli su come rimanere in vita. Assurdo.

   Con il naso a contatto con le piastrelle, studio l'ambiente tra l'ammasso di capelli che mi sono piovuti in faccia. Cerco dettagli al di là della penombra. È a questo punto che vedo imponenti sagome svettare fino al soffitto. Delle colonne, solenni, lisce e dal capitello ricoperto di fogliame, perlomeno quella vicina a me è così.

Reclino il capo per confermare che lo siano anche le altre. Le colonne si alternano a statue dalle braccia esili e dita protese verso il portone dall'altro capo della sala, come a indicare una sentenza. Non sono aggraziate, sono austere e potrei giurare che sul loro volto le espressioni scolpite siano piene di rughe nette e severe.

   Ruoto il capo. Tutto il lato alla mia sinistra è coperto da pesanti tende di velluto e color smeraldo, o così mi pare. Non posso esserne certa. Il buio è troppo perché possa vedere qualcosa in più dei riflessi del velluto, e strizzare gli occhi non serve a molto.

Mentre Joy spinge la mia faccia contro il pavimento, io sposto lo sguardo a destra, oltre la fila di colonne e statue c'è un'intera parete piena di quadri: ritratti oltremodo pomposi di signore con grosse parrucche e uomini dai grossi nasi arrossati e i baffi pizzicati all'insù.

Sangue e Petali d'ArdesiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora