1 (parte I)

166 9 9
                                    

LEONOR

   Il sangue cola rosso come i petali di una rosa sul punto di appassire e porta con sé il dolore pungente delle spine.

   È un grido stridulo, un urlo soffocato nel petto di chi ancora resiste e stringe i corpi dei propri cari, quello che si leva tra sottili fumi mentre altro sangue continua a colare lungo le pareti umide delle case. Si trascina sui portici di legno, marcio e cedevole, fino a macchiare con schizzi decisi le mura in pietra grigia della chiesa alle mie spalle.

   È allora, circondata da un tanfo che mi brucia il respiro, che mi ritrovo a mormorare: «Prudenza. Prudenza.»
E di nuovo prudenza. Una sola parola ripetuta a chi ha la forza di camminarmi attorno, se pur stordito dai ricordi ancora caldi dall'attacco e dai fumi dei roghi appena accesi.

   Una signora allampanata, dagli occhi sbarrati e le profonde occhiaie mi passa accanto perdendo l'equilibrio. Io la sorreggo, appena in tempo perché non cada nella pozza di sangue e fango ai miei piedi, e con voce atona ripeto: «Prudenza, signora.»

   Non che questo mio atteggiamento aiuti. Dovrei almeno provare a sorridere, a rincuorarla. Dopotutto, abbiamo vinto.

Ma ogni volta che accenno a un sorriso mi sembra sempre fuori luogo. Chi mai sorriderebbe in un posto del genere? Un luogo appena scampato alle zanne delle Bestie e che deve piangere i suoi morti, per di più senza il sollievo di una tomba su cui versare lacrime.

   «Prudenza» sussurro ancora, lasciando la mano gelida e tremante della donna che ringrazia con un filo di voce e scompare dietro a una vecchia capanna dal tetto di paglia bagnata e le serrande delle finestre pericolanti.

   Mi chiedo quando smetterò di ripetere questa parola. Non è certo la prudenza che impedisce alle Bestie di attaccare i villaggi.

Eppure, ogni volta che uno di questi viene liberato da noi cacciatori e che i corpi delle Bestie vengono trafitti con grossi paletti appuntiti, questa parola risuona in ogni angolo del centro.

   Prudenza.

   Come un marchio s'imprime sulle pallide membra impaurite di chi ha sfiorato la morte.

Poi, tocca ai roghi dare un'ultima sentenza. Una dimostrazione di ciò che accade quanto non si è esercitata abbastanza... prudenza.

   «Nor, aiutami con questo.»

   In un angolo umido della chiesa, appena sotto a una bifora dal vetro opaco e spaccato, vedo Trevor tenere per le braccia un cadavere dall'addome squarciato. Trascinandolo con la poca forza presente in quel suo corpo asciutto e con la spada rinfoderata al fianco che gli preme contro la coscia, esclama: «Anche se Thoth dice il contrario, sai bene quanto me che non c'è bisogno di infierire oltre su queste povere persone.»

   «Lo so.» Non che infierissi molto, a dirla tutta. Thoth vorrebbe che calassi il peso della colpa su di loro, sulle vittime. Vorrebbe che ricordassi di non azzardare assurde pretese, di non mostrarsi alla luce della luna. Come se non avessero appena imparato la lezione.

   Non amo questa parte del mio lavoro. La trovo inutile e – forse – questo è l'unico modo per descriverla: un'inutile mansione.

Niente in confronto all'affondare i miei pugnali d'ardesia nelle giugulari o scagliare frecce dalle punte grondanti di distillato di brugmansia con la mia balestra preferita. Questa inutile mansione non mi fa sentire adeguatamente... soddisfatta.

Non è il tipo di vendetta che cerco.

   «Bene, allora datti da fare e non restare imbambolata.» Gli rifilo uno sguardo acido e lui subito sospira: «Sai cosa intendo.»

Sangue e Petali d'ArdesiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora