19. Casa

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Prima che il cinque luglio potesse spegnersi nella più afosa nottata dell'anno, lascio Caroline dai signori Heyward, nonostante le preghiere di John B di restare allo Chateau.

Per un po' la bambina resterà da Pope mentre io tornerò a casa da mio padre; preferisco stare con chi ha il coraggio di ammettere che non conto nulla piuttosto che con chi mi ha sempre detto di essere speciale e poi mi ha voltato le spalle.

Tendenzialmente, ammetto di essere un tipo rancoroso che non si fa scivolare le cose addosso, ma sono anche il tipo la cui rabbia dura due ore e poi svanisce nel nulla: giusto il tempo di scaricare la tensione e fare qualche stronzata per poi ritornare in me e ricominciare a voler bene anche al gallo di John B. Ma questa volta è diverso perché mi sento tradito da una delle due persone per cui avrei letteralmente preso una pallottola nel petto. E la cosa peggiore è che mi sento stupido, un vero imbecille. Come ho fatto a non rendermene mai conto?

Mentre nella mia mente si disegnano scene in cui i corpi di John B e di Kiara si toccano e le loro lingue si incastrano e le mani scivolano sotto i costumi... oddio, sto per vomitare. E pensare che non mi sono fatto fare nemmeno un pompino mentre lui probabilmente l'ha pure ricevuto! Che idiota che sono.

Dicevo: mentre penso tutte queste cose, sono ormai pericolosamente vicino alla catapecchia di mio padre, un posto fatiscente che cade a pezzi e da cui viene fuori un pungente odore di vomito e tabacco.

Quando entro in casa, Luke è sdraiato sul divano del salottino immerso tra bottiglie di liquori vuote, cibo ormai in putrefazione e flaconcini di medicinali disseminate un po' ovunque; ha gli occhi chiusi ed è particolarmente inerme.

Magari è la volta buona penso mentre mi avvicino per controllargli il battito cardiaco, una cosa che ho imparato a fare da piccolo – da troppo piccolo.

Dopo avergli premuto due dita all'altezza della giugulare, mi rimetto in posizione eretta e prendo un sacco della spazzatura nero in cui riporre tutta la merda che si riversa sui mobili e sul pavimento. Cerco di non fare rumore ma persino camminare senza calciare qualcosa è impossibile, quindi mi rassegno e inizio a procedere come se il problema non fosse il mio.

"Sei venuto a trovare il tuo vecchio?".

Sobbalzo e in un attimo mi irrigidisco quando lo sento parlare, già pronto a ricevere il primo colpo della giornata. Stranamente, invece, se ne resta steso sul divano: deve sentirsi davvero in uno stato pietoso per non avere nemmeno voglia di inveirmi contro o di menarmi. Anche se, in realtà, oggi sono più io a volerlo che lui.

Nel corso del tempo ho istaurato questa strana e malsana abitudine, per cui sono quasi diventato complice della violenza di mio padre, per me diventato mezzo di allontanamento dalla realtà. In un film ho visto che esiste un nome per questo tipo di atteggiamento: sindrome di Stoccolma. In pratica, ad alcune vittime succede di innamorarsi del proprio carnefice; beh, io non mi sono propriamente innamorato di mio padre – credo sarebbe incesto o qualcosa di simile – però ci sono dei momenti in cui sento che quelle botte servano più a me che a lui. Oggi è uno di quei giorni. Voglio smettere di pensare e questo succede solo quando devo lottare tra la vita e la morte, sia mia che di mio padre.

"Questa casa fa schifo" lo provoco restando di spalle e continuando a fare quello che sto facendo.

"Dove hai lasciato la graziosa fanciullina?".

Sento la schiena rabbrividire.

"Non devi nominarla. Anzi, papà, non devi nemmeno permetterti che nella tua testa malata il suo nome possa presentarsi" gli rispondo.

"Stai calmo, figliolo. Non le farò niente. Ho la polizia alle calcagna e quella troietta è protetta dai servizi sociali della contea: sai, mi ha detto il mio amico in commissariato che hai tutti gli occhi delle forze dell'ordine addosso, nessuno stava scommettendo nemmeno 1 dollaro su di te" ride.

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