Capitolo XI - In trincea

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Non aveva sonno. Non più. Il materasso tuttavia non allentava il proprio abbraccio, insistendo nello stringere Ilenia in una morsa. Avvertiva una stanchezza pesante e diffusa, eppure non le era facile continuare a dormire. I conati di vomito pungevano il suo stomaco fin dal mattino, quando era ancora nel letto e non aveva aperto gli occhi del tutto. Guardava l'alba da due fessure sottili. Ma cominciava già a maturare una certezza. Stava iniziando un altro giorno di nausea.

La fiacchezza era quella quotidiana. Variava per intensità e sintomi, poiché aggrediva talvolta specifici organi interni e tal altra muscoli e ossa, conservando comunque sempre il proprio inconfondibile marchio di fabbrica. Era un malessere provocato da fattori chimici. Dagli agenti del bene. Che provavano a cacciare quelli del male, adoperando tutta l'artiglieria a propria disposizione.

Erano armi di distruzione di massa, non c'erano dubbi al riguardo. Dove passavano, lasciavano il segno. I segni. Di un conflitto a fuoco, radicato e viscerale, che non si poteva arginare o confinare in un territorio delimitato. Arrivava ovunque. Seminando vittime fra buoni e cattivi, quasi indistintamente, nel tentativo di sterminare i secondi attraverso il sacrificio di qualcuno dei primi.

Gli attacchi provenivano dunque da ogni fronte. Ilenia non era parte di uno dei due schieramenti a confronto, sebbene avesse un favorito per cui fare il tifo, bensì il loro campo di battaglia. Ospitava alleati e nemici, in ugual misura. Resistere agli assalti di entrambi era l'obbligo costante al quale non poteva sottrarsi per riuscire a condurre in porto la sua missione a lungo termine. Per centrare il proprio obiettivo. Vivere.

Al tumore opponeva i farmaci e per contrastare le azioni corrosive e logoranti di questi usava la propria grinta, tentando di non subire troppo né l'uno né gli altri. Pure con le crepe e i suoi frangenti di titubanza, ai quali saltuariamente poteva anche seguire un comprensibile principio di arrendevolezza, restava una roccia. E in quei rari casi in cui capitava che non fosse pienamente in vena di tirare fuori gli artigli, aveva un solido e robusto braccio destro su cui poter contare. Francesco. Che la supportava con l'usuale affetto.

«Oggi è più difficile di ieri. Io non so se ce la faccio.»

Sospirando pesantemente, come se avesse un macigno sui polmoni, Ilenia buttò fuori la sua angoscia. Non era la norma, in quanto abitualmente tirava dritto per la propria strada come fosse un carrarmato, però di tanto in tanto persino la sua convinzione veniva minata da destabilizzanti crisi d'insicurezza. Le succedeva quando era particolarmente affaticata o giù di corda, che la sua corazza s'impregnava di umana fragilità, diventando esternamente una morbida spugna inzuppata di lacrime trattenute. Perché il cancro era pure questo: una goccia acida capace di battere con costanza sulla fermezza, rosicandola a poco a poco.

«Certo che ce la fai» ribatté Francesco, con un tono insieme dolce e severo: «Ce la facciamo insieme. Sei la persona più forte che conosca. Dovrebbe essere la malattia ad avere paura di te, non viceversa.»

Da quando Ilenia si era ammalata, lui non l'aveva più lasciata sola. Si era trasferito a casa sua, prendendo a dormire da lei regolarmente. Niente più spola fra il suo nido d'amore e l'accogliente abitazione dei genitori. Erano praticamente diventati conviventi. Uniti nel bisogno.

Relativamente poi al lavoro, concluso il centro estivo e tornato l'autunno, Francesco aveva mantenuto l'impiego presso la scuola elementare come educatore e insegnante di sostegno per i bambini con piccoli ritardi. O, eccezionalmente, per quelli fin troppo avanti. I quali potevano presentare, oltre a determinate deficienze comportamentali e relazionali, alcuni tratti caratteristici derivanti dall'autismo che attribuivano loro delle capacità sbalorditive. Poteri straordinari.

Nonostante i suoi impegni professionali, al fianco di Ilenia c'era comunque sempre qualcuno. Francesco infatti non si allontanava mai da lei prima che fosse giunta sul posto Luisa a tenerle compagnia. In genere accadeva così che madre e figlia trascorressero insieme la mattinata e il primo pomeriggio, mentre lui era indaffarato nel tenere a bada cinque discoli dai sei ai dieci anni. Piccoli monelli senza freni.

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